Il Milan ha cambiato leader tecnico. È passato da Suso a Ibra. E anche se sono solo 3-4 partite, c’è materia sufficiente per tirare le somme. Dato atto a Suso di aver fatto tante ottime cose per il Milan in anni difficili, decisivo il suo apporto per la conquista delle Supercoppa del 2016 e delta positivo nel rapporto fra gol segnati e assist salito in doppia cifra in ogni sua stagione rossonera, la crescita del Milan è legata proprio a questo cambiamento. Le differenze sono palpabili: il calcio di Ibra è da area di rigore o giù di lì, quello di Suso sulle fasce.

Il calcio di Ibra è più inclusivo, più condiviso, perché è un calcio che aggrega e spariglia i moduli, consentendo a Leao e Rebic di crescere, mettersi in evidenza e segnare; quello di Suso è invece vincolato al 4-3-3 con una sola punta e dall’altra parte un esterno offensivo come lui che non poteva essere né il portoghese e nemmeno il croato. Il calcio di Ibra lo si vede e lo si percepisce anche nelle giornate non eccelse: contro l’Udinese, Zlatan non ha fatto fuoco e fiamme ma ha portato via difensori avversari, creato spazi, fatto sponde come nel gol del 3-2, tentato il tiro, fatto regia offensiva. Nelle giornate di scarsa vena, invece, Suso è così intento a sbloccarsi e a fare le sue giocate che non riesce ad essere utile alla squadra.

La mia opinione è che sia Suso che Piatek, come è capitato ad altri loro compagni, che nel girone d’andata di campo ne hanno visto poco, debbano trovare in loro stessi gli stimoli per reagire e le motivazioni per capire che il nuovo calcio rossonero e il nuovo modulo possono essere utili anche a loro, soprattutto al bomber polacco, per la verità. Se poi Suso chiedesse davvero la cessione e venisse accontentato, un bell’applauso. Perché su Suso è ingiusto infierire e perché anche chi lo fischia smetterebbe di farlo, dopo aver visto un filmato con tutti i suoi gol nel Milan dal settembre 2016 fino alla punizione contro la Spal dello scorso ottobre.

Non era facile contro l’Udinese e se il Milan ha rischiato e vinto, lo deve a Stefano Pioli. Se alla prima emergenza infortuni stagionale si aggiungono l’esordio di un difensore centrale, lo stato di forma eccellente dell’avversario e un tuo errore grave in apertura di gara, il rischio era davvero quello di implodere. Il Milan del primo tempo era in un vicolo cieco, sul punto di cancellare quanto di buono e incoraggiante aveva fatto nelle puntate precedenti. L’Udinese giocava con la pipa in bocca come si dice nella vulgata di campo, tutta corta, tutta stretta e pronta a ripartire. Fisica a centrocampo, a suo agio nelle marcature chiave della partita, Ekong su Ibra e sia Larsen che De Paul su Theo, l’Udinese era perfettamente in grado di andare a vincere senza colpo ferire. Ma qui è entrato in campo Stefano Pioli.

Non ha ragionato da perso per perso, ma è stato lucido. Ha rischiato con il 4-2-3-1 e ha avuto ragione: occhio, passare da un modulo di certezze difensive come il 4-4-2 del primo tempo al modulo più offensivo nel corso della stessa stessa partita non è un gioco da ragazzi. Pioli non ha pensato a sfondare il muro friulano con la coppia pesante Ibra-Piatek, ma ad aggirarlo cercando una certa copertura sulle fasce. E Rebic ha garantito tutto questo. Certo che ha rischiato Pioli, vedi le parate di Donnarumma, ma ha vinto. E questo significa essere allenatore di polso, pronto a rischiare, ma se la mano del pilota è ferma il risultato finale poi non è una coincidenza.

A due terzi di mercato invernale ormai consumati, non sono alle porte grossi cambiamenti nella rosa del Milan. La priorità va alle cessioni e, nel caso, il club si regolerà di conseguenza. La cosa nuova è che il procuratore di Theo Hernandez dice: “Il Milan è il posto giusto, lui non si muove”. Non è un dettaglio. Il Milan, con questa scelta, non si vede vissuto dal suo miglior giocatore stagionale come un albergo. Quelli che criticavano Paolo Maldini in estate per aver speso in un ruolo che era già coperto da Ricardo Rodriguez, sono gli stessi che oggi dicono che Theo Hernandez vale così tanto e gioca così tanto bene che il Milan non può tenerlo.

Le facce toste sono in servizio permanente effettivo nel nostro calcio, ma la risposta più bella è proprio quella di Theo. Si è ripreso veloce da un infortunio delicato alla caviglia in un momento carogna come l’inizio della preparazione estiva, ed è stato subito se stesso. Anzi, meglio di se stesso. Perché così non è mai stato equilibrato fuori dal campo e così non è mai stato qualitativo in campo. Vero che è giovane, ma nel calcio di oggi di una stagione di un giocatore si parla così tanto che sembrano sei tutte in una volta sola.

Ma Theo ha respirato l’aria di un grande stadio, il Bernabeu. Theo è stato scelto dall’idolo di Carles Puyol e Sergio Ramos, ovvero Paolo Maldini. Theo ha in pugno un grande stadio come San Siro e un Milan che vuole tornare grande con lui. Perché cambiare? Per lo statino di fine mese? Per andare in una di quelle realtà emergenti di plastica e senza tradizione che vanno tanto di moda nel calcio di oggi? Resta Theo, resta, che è una buona cosa. E poi vai Theo, vai, dritto verso la porta avversaria.