Trent’anni fa esatti, il secondo scudetto della storia del Napoli. Una luminosa domenica di aprile, la partita contro la Lazio, nulla di più di una passerella. Tutto era stato deciso sette giorni prima, come vi abbiamo raccontato una settimana fa, nell’incrocio impronosticabile fra il trionfo azzurro a Bologna e la seconda ‘Fatal Verona’ del Milan.

Quel giorno, la città impazzì nuovamente, a tre anni di distanza dal primo, storico scudetto. Già allora, mentre ci riversavamo in piazza, ci chiedemmo se fossimo felici come nel 1987 o se addirittura lo potessimo essere di più, considerato che lo scudetto del ‘90 arrivò dopo una battaglia durissima e palpitante, contro la corazzata rossonera di Arrigo Sacchi.

Non pochi, però, si chiesero anche se non lo fossimo un po’ meno. La gioia era evidente e indiscutibile, ma gli occhi più attenti seppero scorgere i segnali della fine di un’era. È sempre difficile e doloroso, nel pieno di una festa, essere colti da quella sottile inquietudine, dai segnali che i momenti più belli siano ormai alle spalle.

Non voglio certo dire di aver colto a vent’anni, ciò che sfuggì a tantissimi navigati osservatori, ma ricordo benissimo di aver assistito e partecipato alla festa con un animo molto diverso, rispetto all’87. Perché il rapporto fra Maradona e la città restava viscerale e assoluto, ma era ormai chiaramente soffocante. Anche chi non fosse al corrente dei fantasmi e demoni di Diego, percepiva come la favola fosse a titoli di coda. Il Diez riusciva a godersi l’amore della città e dei tifosi in campo, ma da tempo non riusciva più a farlo fuori. Avrebbe voluto mollare tutto molto prima e non aveva mai perdonato – né l’avrebbe mai fatto in futuro – Corrado Ferlaino di non averlo fatto andare al Marsiglia di Bernard Tapie.

Sia chiaro, se il presidente avesse venduto Maradona avrebbe dovuto emigrare in un altro continente, lasciare l’Italia non sarebbe bastato a sfuggire all’ira dei tifosi. Erano tutti, insomma, prigionieri della situazione, ma l’unico che avesse il coraggio di urlarlo restava Maradona.

La corda si era già spezzata e quel trionfo fu l’ultimo ballo di un gruppo e di una storia irripetibili. Ci sarebbe stata, in realtà, un’appendice: la vittoria di agosto in Supercoppa italiana, contro il nemico di sempre, la Juventus, addirittura asfaltata per 5-1.

Un lampo, un’illusione, che si sarebbe presto spenta al cospetto del tramonto di Diego a Napoli. Fu, insomma, una festa memorabile, che emoziona ancora oggi chi ebbe la fortuna di parteciparvi, ma fu anche un passaggio malinconico. Un’avventura stava finendo, lo sapevano quasi tutti e nessuno poteva far nulla per impedirlo.

Avervi assistito, nei convulsi mesi fra il Mondiale del 1990 e la positività di Maradona, resta un passaggio che tanti ricordano ancora oggi con un misto di impotenza e amarezza.