La ricordo bene la Fatal Verona! Certo, la ricordo dal nostro punto di vista, di tifosi azzurri. Sono consapevole di attirarmi più di qualche antipatia nel sottolineare la dolcezza di quella domenica (era il 22 aprile 1990, esattamente 30 anni fa) e il senso di gioia irrefrenabile che ne seguì. È semplicemente il gioco delle parti, l’eterno confronto del tifo sano. Nulla a che vedere con il becero scambio di insulti, che troppe volte avvelena la nostra convivenza, intorno alla magia del pallone.

Per essere chiari, non ho nessuna difficoltà nel riconoscere ciò che accadde allo stadio Bentegodi quel giorno. Fossi stato un tifoso del Milan, mi sentirei ancora defraudato della possibilità di giocarmi lo scudetto, fino all’ultimo minuto. L’arbitraggio di Lo Bello figlio resta a tutt’oggi uno dei più contestati e contestabili di sempre.

Quel giorno, però, non mi trovavo al Bentegodi e non tifavo per i rossoneri di Arrigo Sacchi, ma per il Napoli del divino. E non mi trovavo né a Verona, né a Bologna, dove gli azzurri passeggiarono sui rossoblù involandosi verso il titolo, ma a Napoli. Per essere più precisi, all’ippodromo di Agnano, dove quella storica domenica si correva il Gran Premio Lotteria di Ippica. Ai tempi, uno straordinario appuntamento annuale con il trotto e il sogno della grande vincita, che andava ben oltre lo sport. Era il momento-glamour per eccellenza a Napoli, per il quale si riversavano in ventimila nel vetusto impianto di Agnano. Numeri, oggi, semplicemente impensabili.

Eravamo lì, perché nella radio, per cui lavoravo allora, curavo lo studio centrale delle partite del Napoli, che quel giorno trasferimmo all’ippodromo, in concomitanza con il Lotteria. Vivemmo un misto di entusiasmo crescente, gioia collettiva, agonismo esasperato e tanta, tanta adrenalina. Soprattutto, provammo una sensazione travolgente, perché inaspettata. Nessuno di noi avrebbe scommesso nulla, a proposito di cavalli, su una caduta del Milan. La rottura prolungata di Van Basten e compagni, per usare un termine legato al trotto, appariva inipotizzabile. Perché, se è vero che l’arbitro ci mise del suo e ho voluto ricordarlo prima di qualsiasi altra cosa, e pur vero che quel Milan perse completamente la testa. Non riuscì a giocare, fondamentalmente non riuscì a fare il Milan. Quella macchina era così perfetta, ma delicata, da dover andare sempre al massimo. Un minimo intoppo e la magia si spegneva. Non a caso, una squadra leggendaria in Europa lo fu molto meno in Italia, in termini di risultati.

Il Napoli, invece, era una squadra dal gioco tutto sommato modesto, se paragonato ai meccanismi sacchiani. Zeppo di talento, si affidava al genio del Diez e alla solidità di centrocampo e difesa. Una squadra di lampi abbaglianti. Non solo di Diego, ma anche di quel mostro di centravanti che era Antonio Careca. C’erano, poi, il killer dell’area di rigore Andrea Carnevale, le geometrie di Alemao – sì, lui, quello della monetina di Bergamo – e giocatori anche umili, ma illuminati dalla grandezza inarrivabile dell’argentino. Non voglio togliere meriti al tecnico Albertino Bigon, sereno e ordinato gestore di un gruppo straordinario, solo raccontare il Napoli per come lo vivevamo noi, felici spettatori e tifosi di un’era irripetibile.

Quello scudetto, del resto, fu suggellato dalla Fatal Verona, ma nacque sostanzialmente dalla voglia selvaggia di Diego di prepararsi al meglio per il mondiale italiano del ’90. Messo a regime lui, nel girone di ritorno non ci sarebbe stata storia per nessuno.

Come questa vicenda si sarebbe conclusa, poi, nel luglio dello stesso anno, proprio allo stadio San Paolo di Napoli, ve lo racconteremo una prossima volta.