Quello che distingue un grande campione da una vera e propria leggenda è il carisma, la capacità di essere decisivo, di mantenere il cuore caldo e la mano ferma nei momenti più difficili, di condurre la squadra alla vittoria, di farsi carico di tutta la responsabilità anche quando si è sul filo del rasoio. Se c’è un uomo nella storia dello sport che di carisma ne aveva da vendere e che riassumeva in sé tutte le qualità appena elencate, questi è certamente Michael Jordan.

Esattamente 22 anni fa, ossia il 14 giugno 1998, MJ segnava l’ultimo punto con la maglia dei Chicago Bulls e non era un punto qualsiasi, ma quello che è valso il sesto titolo in otto anni di quella squadra leggendaria, considerata la più forte di sempre. È stato il punto del secondo three-peat, ossia della seconda volta che i Bulls hanno conquistato tre titoli NBA consecutivamente. Il primo è arrivato con i successi tra il 1991 e il 1993, il secondo, appunto, tra il 1996 e il 1998.

Dopo quell’ultimo tiro MJ si è ritirato (per poi tornare per due stagioni con i Wizards dal 2001 al 2003); il coach Phil Jackson è andato a conquistare un altro three-peat in un’altra franchigia (con i Lakers tra il 2000 e il 2002) e tutti i principiali giocatori sono stati scambiati o, come Dennis Rodman, sono stati lasciati “liberi”. Dopo quell’ultimo tiro la squadra è stata “ricostruita”, ma in questi 22 anni non è mai riuscita ad avvicinarsi, nemmeno lontanamente, ai fasti di quel periodo d’oro.

La stagione 1997-1998 dei Chicago Bulls

Fin dalla preseason Phil Jackson, Michael Jordan e i suoi compagni sanno che è la loro ultima stagione insieme. Il proprietario Jerry Reinsdorf e il general manager Jerry Krause, che nel 1984 avevano ricostruito una prima volta la squadra e lo avevano fatto cercando di mettere Michael Jordan nella migliore condizione possibile, hanno deciso di procedere a una nuova ricostruzione, perché quel team comincia a costare troppo e inoltre i rapporti di Krause con Phil Jackson non sono buoni. Reinsdorf e Krause sanno, però, che mandare via Jackson significa anche rinunciare automaticamente a Michael Jordan e Scottie Pippen.

Con questi dissidi interni tra squadra e società, i Chicago Bulls affrontano la stagione 1997-1998 sapendo che sarà il loro “ultimo ballo”, per questo molte volte parlano esplicitamente di “The Last Dance”, espressione che ora dà il titolo a un documentario in dieci episodi disponibile su Netflix che ha riscosso un grande successo in tutto il mondo. Nel documentario viene ripercorsa tutta la storia di MJ con i Bulls, fino, appunto, a quell’ultima stagione e a quell’ultimo tiro.

Nel 1997-1998 i Chicago Bulls concludono la Regular Season con 62 vittorie e 20 sconfitte, chiudendo al primo posto sia la classifica della Central Division sia quella della Eastern Conference. Nei playoff affrontano al primo turno i New Jersey Nets, facendoli fuori in sole tre partite. Nelle semifinali di Conference si impongono 4-1 sui Charlotte Hornets e nelle finali di Conference chiudono la palpitante serie con gli Indiana Pacers in gara 7. Nel frattempo dall’altra parte del tabellone, gli Utah Jazz eliminano gli Houston Rockets per 3-2, poi i San Antonio Spurs per 4-1 e nelle finali della Western Conference sconfiggono senza appello i Los Angeles Lakers per 4-0. Per il secondo anno consecutivo, dunque, la finalissima NBA è tra Chicago Bulls, campioni in carica da due anni, e Utah Jazz.

The last shot di Michael Jordan con i Chicago Bulls

Michael Jordan The last shot Chicago Bulls

La serie delle NBA Finals 1998 tra Chicago Bulls e Utah Jazz comincia il 3 giugno al Delta Center di Salt Lake City e Gara 1 si conclude con il successo dei padroni di casa per 88-85. Due giorni dopo, però, nonostante il campo sia lo stesso, sono i Bulls ad avere la meglio e a imporsi per 93-88, pareggiando dunque subito i conti. Nei due match giocati a Chicago, Michael Jordan e compagni riescono a portarsi sul 3-1 vincendo con un roboante 96-54 Gara 3 (una vera e propria umiliazione per i Jazz) e per 86-82 Gara 4 del 10 giugno. Il 12 giugno per i Bulls arriva dunque il primo match point per chiudere la serie. Se lo giocano in casa, in uno United Center già pronto a festeggiare, ma forse proprio la festa già nell’aria deconcentra i campioni in carica che perdono 81-83 e sono così costretti a tornare a Salt Lake City per cercare di sfruttare la seconda possibilità di chiudere la serie, senza ritrovarsi a giocare anche una decisiva Gara 7 sempre in trasferta.

In Gara 6 i Bulls, dopo essersi trovati avanti di 9 punti, si vedono raggiungere e superare dai Jazz. Il motivo principale della battuta d’arresto degli uomini di Phil Jackson sono i problemi alla schiena di Scottie Pippen. Il numero 33 è costretto a uscire e rientrare dal campo di continuo per farsi massaggiare. Cinque minuti di massaggi per cinque minuti di gioco. Stringe i denti perché, anche malconcio, in campo è indispensabile come esca per i Jazz. Michael Jordan, con i suoi 35 anni e tanti, forse troppi minuti nelle gambe, rimane in campo praticamente tutto il match. A 41 secondi dal termine gli Utah Jazz conducono per 86-83, ma da questo momento in poi Jordan decide di dare l’ennesima dimostrazione della sua onnipotenza cestistica.

Jackson chiama il timeout e al rientro in campo Pippen passa la palla a Jordan che supera Russell e segna da 2, portando i Bulls a -1. MJ sa benissimo che i Jazz ora giocheranno per Karl Malone, è uno schema che ha visto fare già altre volte e che ha studiato; perciò si fa trovare pronto: mentre The Mailman continua la sua lotta infinita con Dennis Rodman, Jordan lo sorprende dal lato cieco e gli ruba palla. MJ guarda con la coda dell’occhio Phil Jackson e capisce che non chiamerà il timeout: il coach, infatti, non vuole permettere ai Jazz di riorganizzare la difesa e vuole che si vada al tiro. Nel frattempo Pippen pensa soltanto: “Devo levarmi dai piedi” per lasciare campo libero a MJ, visto che a causa del mal di schiena ha una pessima mobilità e non vuole essere d’intralcio al compagno. E Dennis Rodman sa benissimo che MJ non passerà quella palla perché “è il suo momento” e nessuno, quindi, può togliergli la scena.

MJ infatti non ha alcuna intenzione di passare la palla a qualcuno dei suoi compagni, guarda il campo e pensa di poter tirare in sospensione o andare a canestro, deve solo scegliere il momento giusto per attaccare. Opta per la prima scelta, entra in area, si libera di Russell e ha la visuale completamente libera, è a pochi passi dalla lunetta, salta quanto basta, fa partire il tiro, estrae la lingua e lascia che la palla si diriga con una traiettoria perfetta verso il canestro. 87-86 per i Bulls. Qualcuno pensa che MJ abbia spinto Russell, ma il numero 23 oggi spiega che l’avversario era già sbilanciato: “La sua inerzia lo ha portato da quella parte, non ho dovuto spingerlo”.

Mancano 5.2 secondi al termine del match. I Jazz chiamano il timeout. Jordan ha segnato 45 punti in questo match, è esausto, sfinito, stremato. Mentre è seduto ad aspettare che il match riprenda, Pippen gli dice: “Preparati a correre. Non diamogli un altro timeout”. Serve un ultimo sforzo. Al rientro in campo John Stockton si libera di Ron Harper e tenta il tiro da 3, ma la palla non entra, va sul ferro, rimbalza lontano e il tempo è ormai finito. I Bulls hanno vinto ancora e sì, quello è stato davvero l’ultimo tiro di Michael Jordan con la maglia di Chicago e non poteva essere più straordinario e significativo di così, il tiro che consegna ai Bulls il sesto titolo NBA in otto anni. E come le cinque volte precedenti, Michael Jordan è nominato MVP delle Finals.

Dopo la festa negli spogliatoi tra sigari e champagne e una visita di Leonardo di Caprio, i Bulls vanno in hotel e Michael Jordan tiene un’insolita conferenza stampa mentre strimpella al pianoforte. Ai giornalisti rivela: “Phil mi ha chiesto: ‘Riesci a giocare 48 minuti?’ Scottie si è fatto male, è stata dura. Non me l’aspettavo. Ho avuto una paura fottuta”. E quando gli chiedono che cosa ha sentito dopo quel tiro, lui risponde candidamente: “Erano tutti corti!” perché in effetti quella sera, a causa della stanchezza, molti suoi tiri non sono entrati perché troppo corti, ma poi aggiunge: “È stato fondamentale lasciare andare le due dita”. Poi gli chiedono se tornerà per la prossima stagione e lui risponde: “Come dice il buddismo zen: bisogna vivere il momento, essere presenti”. Poi aggiunge: “Vivete il momento fino a ottobre, allora sapremo dove saremo”. E a ottobre MJ non ci sarà, quella è stata la sua ultima partita con i Bulls, l’ultimo ballo di una squadra leggendaria. Altrettanto leggendario è stato quell’ultimo tiro, il canestro della vittoria che ha messo il punto esclamativo a un’avventura che non ha avuto eguali nella storia dello sport.