Ci sono storie pallonare che si possono raccontare con dovizia di particolari perché le voci filtrano e gli interpreti i si sbottonano. Ce ne sono altre che vivono di sensazioni, impressioni, sentori, percezioni: ecco, la storia di Antonio Conte e dell’Inter appartiene, senza dubbio, alla seconda categoria. Per il semplice motivo che o c’erano microspie all’interno della villa dove si è tenuto il summit tra la dirigenza nerazzurra e il tecnico di Lecce o, in alternativa, qualcuno ha spifferato tutto stile Watergate: entrambe le ipotesi ci sentiremmo di escluderle a priori, a meno di sensazionali scoop ad oggi non pervenuti.

Il dilemma della vicenda, giusto per sintetizzare, è stato: sì, d’accordo, ma alla fine chi esce meglio da questo testa a testa, da questa presunta sfida all’OK Corral chiusa, a quanto pare, con una razione abbondante di tarallucci e vino?

Me ne assumo l’intera colpa ma sarò salomonico: non c’è un vincitore e non c’è un vinto. C’è semplicemente un accordo, a questo punto mi auguro totale, tra una proprietà solida e ricca, vogliosa di primeggiare e convincere la tifoseria nerazzurra della bontà del progetto e un allenatore che fa del sostantivo vittoria il proprio credo lavorativo: non fatico a pensare a un Antonio Conte primo tra gli insoddisfatti per come l’annata sportiva si è chiusa. Certo primo a volere, fosse possibile, rigiocare una finale di Europa League persa malamente forse anche per sue scelte poco appropriate. Ma questa ormai è  storia del calcio. Anche se, scorrendo le fasce della prossima Champions, un leggero brivido percorre la schiena dei tifosi nerazzurri: grandi club abitano la seconda di queste benedette o maledette fasce, vincere avrebbe significato evitare pericoli maggior di quelli che l’Inter, inevitabilmente, si troverà a dover affrontare.

Torniamo ai nostri eroi. Alcuni hanno suggerito l’ipotesi del dover proseguire l’avventura insieme per non pagare, eventualmente, due annualità al mister, avendone già un altro, ottimo vignaiolo oltre che allenatore, da saldare ogni fine mese: a me non sembra. Trovo, visto quanto capitato in precedenza, che Suning non abbia lasciato a Conte piena libertà di movimento, della serie “me ne vado mi dovete pagare, mi cacciate mi dovete pagare”. E non credo nemmeno che il continuare un cammino intrapreso solo dodici mesi fa – prima stagione tribolata per dire poco che ha portato a un secondo posto con 82 punti, gli stessi dell’Inter di Mou come tutti sanno, a una finale continentale assente da un decennio, inserendo uomini nuovi, lanciando giovani oggi certezze lo scorso agosto mica troppo, cambiando completamente modo di giocare – faccia parte di un mero discorso economico: suppongo Antonio Conte sia sufficientemente benestante da poter rinunciare a una cospicua parte di ingaggio pur di liberarsi da una situazione sgradita e sgradevole. Pecunia non olet, ma a chi giova rimanere in un luogo indesiderato?

Steven Zhang, nonostante la giovane età, ha mostrato, opinione personale ovvio, personalità e capacità di negoziazione. Ripeto il concetto: non sappiamo e dubito sapremo mai cosa si siano detti nelle segrete stanze, roba che manco un conclave, ma di certo il Presidente ha ascoltato i desiderata del suo allenatore. Che non sbaglia quando parla a livello di concetti: sbaglia modi e tempi, ingredienti fondamentali nel mondo del calcio attuale. Dal mio punto di vista la comunicazione è il tallone d’Achille di Conte: credo andrebbe istruito in materia, anche se difficilmente un caratterino come quello del tecnico nerazzurro è così facile da modellare.

Il tutto per ribadire che no, non esiste un vincitore e un vinto in questa vicenda: dopodiché, come sempre, ciascuno è liberissimo di esprimere il proprio pensiero e credere ciò che pensa sia la sua verità, mai assoluta come nemmeno questa lo è.

Mi è piaciuta la maniera con cui si è giunti all’incontro fatidico? No. Ma, per il bene dell’Inter, è stata la scelta migliore all’apparenza: il tempo ci racconterà se lo sarà stata anche nella sostanza.