Vivere Spezia-Juve alla quinta giornata di campionato esattamente come Inter-Juve, quell’Inter-Juve, quello dove abbiamo capito chi “non muore letteralmente mai”: fatto.

Con la stessa soddisfazione iniziale per il primo gol, la delusione e poi l’angoscia per una squadra impaurita di testa, ferma sulle gambe, goffa dietro, non produttiva davanti, a un passo dal baratro, l’esultanza rabbiosa per il pareggio e l’esplosione per il gol vittoria e soprattutto il fischio finale, dopo altre sofferenze, con un sorriso stampato per ore, tipico di quei sorrisi che hanno conosciuto la paura, sfiorato l’abisso, immaginato la fine. 

Non so cosa voglia dire esattamente, avere vissuto in questo modo una partita apparentemente insignificante d’inizio campionato, ma credo sia parte integrante dell’essere tifoso, sapere soffrire, deprimere ed esaltarsi in modo analogo per una vittoria che vale lo scudetto e un’altra che ti porta via dal diciottesimo posto e in qualche modo spezza un incubo.

A La Spezia la Juve trova presto il gol – e che gol – con Moise Kean, con un gesto da vero attaccante che si sposta il pallone e lo spedisce sul secondo palo e qui cominciamo a vivere ancora una volta quello strano meccanismo che opera dentro di noi: a livello inconscio pensiamo che sembra tutto in discesa, facciamo il secondo ed è chiusa, stavolta probabilmente è fatta; razionalmente, tuttavia, ci imponiamo di ricordarci che viviamo tempi complicati, in cui andare in vantaggio non vuol dire assolutamente nulla. E così infatti gli avversari tirano, para Szczesny ed ecco che arrivano per primi sulla ribattuta, tirano di nuovo, una lieve ma probabilmente decisiva deviazione ed ecco perché la razionalità deve averla spesso vinta sull’inconscio. Siamo uno pari, si riparte da capo, ancora una volta.

Dybala chiude il tempo da attaccante, dopo mezz’ora giocata lontano dalla porta senza incidere, fa tre tiri in pochi minuti e ci ricorda che non sarebbe male, talvolta, vederlo più vicino alla porta, perché è lì che diventa letale, con dribbling, giocate, uno-due e, appunto, tiri micidiali da qualunque posizione.

Nell’intervallo la razionalità ha preso totalmente il dominio su quell’illuso dell’inconscio e sappiamo che forse possiamo anche vincerla, ma di certo non si può escludere di perderla, con conseguenze nefaste difficilmente prevedibili. Ed ecco lo Spezia ripartire con 1 contro 1 a tutto campo, il tiro, un’altra deviazione et voilà, siamo sotto anche oggi e già nel secondo tempo, con un’altra occasione clamorosa per i liguri, che ripartono in superiorità numerica, tirano a botta sicura per finirci definitivamente e Locatelli, entrato da poco, salva a Szczesny battuto.

Tutto quello che accade da qui in poi spiega bene cosa sia il calcio: uno sport di squadra in cui però, se un giocatore ha più voglia degli altri, può correre a testa bassa verso un difensore avversario pronto a rinviare, mettergli pressione, soffiargli la palla, involarsi dentro l’area, essere il primo a catapultarsi sul rimpallo, avere l’intuito di tentare un tunnel e anticipare il portiere per fare il due pari. Quell’uno nella Juventus si chiama Federico Chiesa che, con la stessa voglia, qualche minuto dopo conquista il calcio d’angolo che porta al gol – bello, anche questo, per rapidità d’esecuzione e precisione – di de Ligt, chiudendo così di fatto l’incomprensibile divisione tra giovani e meno giovani, quando dev’esserci solo una squadra compatta, sveglia, determinata, che sa quanto vale e conosce quello che deve fare.

Inconscio vs razionalità anche qui: stavolta forse possiamo rilassarci, dice il primo, mentre la seconda ti tiene fermo sul divano e ha ragione anche stavolta, perché concediamo campo e altre occasioni, tra cui una super parata di Szczesny che vale un paio di quei punti fatti perdere in precedenza per i suoi errori.

Finisce così: i problemi rimangono identici, c’è da lavorare su tattica, tecnica, gambe e testa, ma abbiamo saputo soffrire e siamo tornati a vincere in quello che sembrava il giorno più nero, nella partita in cui eravamo a un passo dal baratro e allora per stavolta, anche diverse ore dopo, mi tengo stretto quel sorriso, quell’inconfondibile sorriso di chi ha conosciuto la paura.