La settima vittoria consecutiva dell’Inter, il giorno prima del suo 113esimo compleanno, maturata questa volta con l’Atalanta, ha ufficializzato una premessa che nelle ultime settimane veniva agitata con un eccesso di enfasi, trasformandola in sentenza, quasi a voler proclamare una favorita definitiva per lo scudetto, con l’intento di stanarla dal ruolo di sfidante che aveva sempre avuto fino a poco tempo prima.
La partita giocata contro l’Atalanta ha rivelato in modo palpabile l’umiltà dell’Inter e il progetto di Conte che, a seconda dell’avversario, si modella e si adatta.

I successi di Milan e Juventus in due partite difficili avevano dato la sensazione di poter riavvicinarsi all’Inter, sfruttando un turno difficilissimo, e in effetti nell’ambiente nerazzurro molti tifosi sostenevano che un pareggio non sarebbe stato un disastro.
L’Atalanta di oggi è una squadra che nella singola partita gioca con un’intensità fuori dal comune, sa fare possesso, ha giocatori di corsa e qualità e pressa in modo asfissiante per novanta minuti, ma è un tipo di calcio che non può sostenere allo stesso modo per tutta la stagione, altrimenti sarebbe probabilmente in testa alla classifica.

I bergamaschi sono arrivati a san Siro con l’intenzione di vincere, in uno stato di forma ottimale e tutti gli uomini a disposizione, così Conte ha deciso di arretrare il baricentro, sfruttando l’impenetrabilità della difesa, aumentando la densità della seconda linea con Barella, Brozovic e Vidal e chiedendo ad Hakimi e Perisic di coprire e accorciare, assistendo Lukaku e Lautaro per quanto possibile.
L’argentino ha pressato su ogni portatore di palla dell’Atalanta e Lukaku ha fatto quel lavoro di sponda e portaerei che ci si aspettava, duellando con Djimsiti.

È parso subito evidente però che rinunciare ad Eriksen privasse fin troppo la metacampo di una fonte di gioco alternativa a Brozovic, oltretutto a favore di un Vidal ancora una volta sotto tono, con una situazione di inferiorità in mezzo al campo che obbligava Brozovic e Barella ad un lavoro doppio. Così nella ripresa, dopo meno di dieci minuti, contrariamente alle sue abitudini, Conte ha fatto entrare il danese e l’Inter ne ha subito tratto un vantaggio, non solo per il calcio d’angolo da cui è scaturito il gol di Skriniar, ma anche per il lavoro di copertura e rilancio ad un solo tocco e per giunta illuminato (nessun errore di Eriksen nonostante la pressione e il rilancio quasi immediato verso un compagno).

Troppa gente ragiona utilizzando la sterile e stucchevole metafora del carro su cui salire e da cui scendere, un metodo di discussione che imprigiona l’intelligenza e i ragionamenti.
Skriniar ed Eriksen erano due giocatori sul mercato, esattamente come Perisic. Un errore grave per il quale Conte era stato giustamente criticato, ma il tecnico ha altri meriti indiscutibili per i quali va solo omaggiato: la riconoscibilità del gioco e la sua organizzazione, la mentalità e soprattutto la continuità lungo tutto il torneo che la sta portando ad avere concentrazione, nonostante le voci sulla società.

Ecco, il valore di Conte sta soprattutto in quella scintilla riservata a pochi, quella capacità di non smuoversi dall’obbiettivo e di cementare un gruppo accompagnandolo quasi di peso verso il proprio obiettivo. Il problema è capire se l’Inter saprà essere tale anche dopo di lui, se ci sarà una continuità con il prossimo eventuale progetto tecnico ma intanto va valorizzato quello attuale con un successo.

Questa squadra ha tanti giovani come Bastoni, Barella, Hakimi e Lautaro, più altri che non sono nemmeno vicino ai trent’anni e la cosa migliore di questa Inter è che può ancora migliorare. Ora però ci sono ancora dodici partite. Non sono finali. Sono dodici partite da prendere, come ha fatto fino ad oggi, maledettamente sul serio.
Buon compleanno Inter.