Si chiama Caicedo, una pepita d’oro. Meglio: un assegno in bianco che la Lazio sistematicamente riempie e riscuote nell’ultimo quarto d’ora, negli ultimi minuti, negli ultimissimi secondi. Una volta c’era la zona Altafini, quando le squadre stavano per sbaraccare e per andare negli spogliatoi, José colpiva che era una sentenza scritta e non. Adesso è la zona Caicedo, al punto che chi lo conosce bene ha una teoria molto chiara: se parte dall’inizio, lui non ha spesso quel furore agonistico, quella voglia infinita, di entrare nel match e di spaccarlo in due con le sue giocate. Come se fosse una questione di motivazioni superiori oppure di DNA: non diciamo certo che ne abbia poche quando parte dal primo minuto, ma di sicuro salendo sul treno in corso diventa fiammeggiante, devastante, decisivo.

Sono numeri, fatti inequivocabili. E nel giro di una settimana ha fatto bingo, ha fatto bis: il gol al minuto numero 98 per inchiodare il Torino che fino a pochi istanti prima vinceva 3-2 per poi essere ribaltato, quindi il pareggio preziosissimo contro la Juve quando stavano scoccando gli ultimissimi secondi e la vittoria bianconera sembrava incorporata nei titoli di coda. Il gol è stato bellissimo, una perla autentica perché, come ha spiegato Bonucci, non gli è stata data la possibilità di agire con il sinistro con la speranza che non facesse il fenomeno con il destro. Invece, ha trovato un movimento da urlo, in un fazzoletto minimo, spazi ristretti: i bonus su un contratto andrebbero premiati al doppio in caso di gol, semplicemente perché un gol così vale per due.

Caicedo è anche una storia di mercato automaticamente respinta. La scorsa estate è stato sul punto di andar via, aveva un’offerta importantissima dal Qatar, aveva detto ai suoi agenti di prenderla seriamente in considerazione, c’è stato un momento in cui le valutazioni avevano quasi portato alla decisione di accettarla. Ma poi Simone Inzaghi gli chiese di restare, motivazioni non solo tecniche o tattiche. “Dopo 5 o 6 mesi che è arrivato gli volevano già tutti molto bene, significa che è entrato subito nello spogliatoio con lo spirito giusto”, ha detto Inzaghi dopo Lazio-Juve, reduce dalla folle corsa per abbracciarlo dopo quel pareggio al minuto numero 94 che ha tolto la squadra da una situazione difficile dopo una settimana complicata. Caicedo è la prova definitiva del modo nettamente diverso rispetto a dieci anni fa di impostare gli organici e di dare profondità alla rosa.

Una volta c’erano due attaccanti che si alternavano, il titolare e la riserva. Adesso c’è bisogno di un assortimento molto più ampio, chi entra è più importante di un titolare e questo particolare rende l’idea dell’importanza di un salvagente come Felipe. Oggi due passaggi sono fondamentali: accettare le rotazioni a costo di restare per qualche settimana di troppo in panchina, entrare e dimostrare di aver accettato con un rendimento che non lasci spazio a qualsiasi tipo di equivoco. Caicedo è la perfetta sintesi di simile teoria: nel “io ti amo, bestione” di Immobile, costretto a guardare Lazio-Juve da casa, non c’era soltanto la felicità di un compagno ma anche l’ulteriore dimostrazione del suddetto discorso. Caicedo è alla quarta stagione di Lazio, arrivò dall’Espanyol nell’estate 2017, conosce il senso di appartenenza al punto da dire no da un ingaggio da cinque o sei milioni a stagione. Se fosse andato in un altro calcio, meno competitivo, lui che ha indossato anche la maglia del Manchester City, probabilmente sarebbe stata la parabola discendente della sua carriera. E lo diciamo con tutto il rispetto per il salto di qualità che avrebbe avuto il conto in banca.

Ci sono anche gli aspetti psicologici che possono cambiare la tua decisione, come minimo condizionarla. Felipe aveva saputo che la Lazio avrebbe preso un altro attaccante e che avrebbe messo 20 milioni per Muriqi pur di strapparlo al campionato turco e alla concorrenza. Un altro si sarebbe fatto qualche domanda: Ciro Immobile non si discute, è la bandiera dalla squadra, ha un rendimento da Scarpa d’Oro e sarebbe un onore fargli da spalla, da scorta o da riserva in base alle esigenze e alle necessità. Ma con Muriqi più Correa, non due qualsiasi, il quesito avrebbe avuto il sopravvento su qualsiasi altra cosa: quando gioco? La risposta sarebbe stata “quasi mai”, più che altro una forzatura piuttosto che la realtà perché poi i fatti hanno detto e continueranno a dire che quattro specialisti nel reparto offensivo sono fondamentali per essere competitivi in campionato, Champions e Coppa Italia. La Lazio è su tre fronti e non ci sono dubbi sul fatto che la scelta sia stata quella giusta.

Ci sono attaccanti egoisti che giocano per se stessi. Ce ne sono altri che vogliono la squadra a disposizione, pronti a ringraziarla, ma con una forma di egoismo che molto spesso fa a cazzotti con il calcio moderno. Ce ne sono altri ancora che, quando entrano, non si fanno trovare pronti, trovano mille alibi, se la prendono con l’allenatore e magari l’allenatore diventa un bersaglio perché non ha avuto la “sensibilità” di utilizzarli da titolare. È molto difficile la gestione di un gruppo con simili rischi anche quotidiani. Caicedo appartiene a una categoria assolutamente a parte: se gioca titolare, si galvanizza; se entra a mezz’ora dalla fine, si carica ancora di più. Proprio per questo motivo la sua valutazione cresce a dismisura. Se fossimo nella Lazio, ce lo terremmo stretto per qualche anno almeno per una spiegazione molto logica: con tutte queste caratteristiche e qualità diventerebbe molto complicato trovare un altro Caicedo.