Quarantena”: una parola che, sino a qualche mese fa, mi rievocava perlopiù letture scolastiche, ma che ora, paradossalmente, è diventata una di quelle che pronuncio con maggior frequenza. Se qualcuno mi avesse detto che, compiuti 33 anni, l’avrei addirittura sperimentata sulla mia pelle, forse non gli avrei creduto. E probabilmente nemmeno voi. Nell’era in cui si fa un salto sulla luna come se si trattasse del bar sotto casa, ci ritroviamo ad essere, al contempo, titolari, riserve e spettatori di un match a cui nessuno voleva partecipare.

Ciò che all’inizio era stato etichettato alla stregua di un virus influenzale da tenere a bada, il COVID-19, è sfociato in pandemia, coinvolgendo in pochissimo tempo tutto il mondo, eccetto sorprendenti eccezioni. Sono certa, quindi, che godrò della vostra piena comprensione se vi confesso che, in un clima straniante e surreale come questo, è tutt’altro che piacevole per me parlare di calcio. Forse è addirittura inopportuno. E aggiungo anche, in tutta franchezza, che sono un po’ arrabbiata con il mondo dello sport per aver eccessivamente temporeggiato prima di decretare l’inevitabile stop dei campionati.

C’era tanto in ballo, è vero, ma in pochi hanno avuto il coraggio di manifestare da subito le proprie perplessità verso una decisione, quella della prosecuzione delle competizioni, che appariva via via sempre più impopolare. Anzi, in principio è stata la confusione a regnare sovrana: dapprima il nullaosta per disputare le gare a porte aperte, poi il ravvedimento con le porte chiuse, sino a giungere alla sospensione definitiva. Il tutto mentre in alcune città del nord Italia (e ben presto in tutto il paese) si stava fronteggiando l’emergenza di una situazione altamente critica.

Il primo ad esprimersi tra i calciatori è stato lo spallino Andrea Petagna, che già sei giorni fa postava su Instagram queste testuali parole: “Oggi abbiamo giocato, siamo scesi in campo e ce l’abbiamo messa tutta. Ho anche segnato, ma nessuno ha vinto. In questo momento di difficoltà il calcio deve essere messo da parte. La salute degli italiani al primo posto. Poi torneremo a giocare.” Così è stato. Non subito, ma poi. L’intero movimento calcistico è stato messo a dura prova. Se inizialmente si riteneva che il virus, per un non meglio precisato atto di benevolenza verso il mondo dello sport, avrebbe risparmiato gli atleti e le persone che, in generale, godevano di buona salute, è bastato poco a capire che si era preso un gigantesco abbaglio: esattamente come quando si continuava a consumare disinvoltamente l’aperitivo nei locali, mentre fuori l’epidemia si propagava a vista d’occhio, guadagnando sinistramente spazio e tempo.

Il primo caso di positività al Covid-19, nel campionato di serie A, è stato registrato tra le file della prima squadra in classifica, a riprova che il virus non fa figli e figliastri. Al poco invidiabile primato di Rugani, difensore della Juventus, hanno fatto seguito i casi di Gabbiadini, Thorsby, Ekdal, Colley e La Gumina della Sampdoria, e quelli di Vlahovic, Cutrone e Pezzella tra i gigliati della Fiorentina. Adesso possiamo dirlo: non si è stati un buon esempio. Non bisognava abbracciarsi, ma è stato fatto, in campo e fuori; non bisognava uscire, mentre non pochi sono stati i tifosi che hanno affrontato dei viaggi, senza i controlli del caso, per seguire la squadra del cuore in trasferta. E adesso? Come comportarsi al cospetto del campionato incompiuto?

C’è solo una cosa che, da alcuni giorni, mentre sono chiusa in casa lontana dalla mia amata nazione, mi frulla in testa e desidero proporvi. Sulle azioni da intraprendere e le soluzioni da adottare per salvaguardare una stagione che sembra compromessa, se ne sono dette di tutti i colori: annullamento del campionato; recupero dei match in estate; introduzione dei play-off; assegnazione dello scudetto sulla base della classifica attuale.

Una decisione dovrebbe essere assunta entro il 23 marzo. Nessuna delle ventilate proposte, tuttavia, rispecchia fedelmente la situazione che stiamo vivendo e che auspichiamo possa finire quanto prima. Ecco perché sognavo un quinto punto, probabilmente utopico, ma simbolico agli occhi della nazione. Piuttosto che invalidare la stagione, lasciando così un vuoto incolmabile negli annali del calcio, o assegnare un trofeo seguendo criteri estemporanei e non convenzionali, perché non insignire tutte le squadre delle più disparate discipline sportive di uno scudetto “ad honorem”? Un titolo che assurga a simbolo di una vittoria collettiva, la più bella dei nostri tempi: quella contro un virus che ci ha messo in ginocchio, stremato, e privato per un tempo che sembra eterno dell’abbraccio delle persone che amiamo. Ditemi, non sarebbe bellissimo? Perché io ci credo fermamente. È dura, ma se facciamo gioco di squadra, andrà tutto bene.