Fa freddo a Milano. Ha nevicato qualche giorno prima, poca roba per la verità, ma sono giornate grigie, piovose, quel classico maltempo novembrino che rende il capoluogo lombardo, in certe occasioni, di un colore uniforme; il non colore.

Fa freddo, sì, ma domenica 26 novembre la situazione sembra migliorare. Ci si sveglia un po’ più tardi del solito, si va nella camera di mamma e papà, ci si siede sul lettone e si chiacchiera, si ride, si scherza. Perché è domenica, e la domenica la si passa insieme. C’è il rito della colazione con fette biscottate, burro, marmellata, biscotti, dolciumi vari. E quello del bagno in vasca, che durante la settimana bisogna correre quindi si viaggia di doccia. Però, quella domenica, sarà una giornata particolare, una di quelle da segnarti sul calendario della vita anche se, appena alzato, non lo sai. Così ci si prepara, si pranza coi nonni come ogni domenica, appuntamento poco prima di mezzogiorno. Abbracci e baci si sprecano, i nonni sono sempre i nonni; ti viziano, ti coccolano, ti raccontano mentre ascolti a bocca aperta storie passate che, a tua volta, racconterai ai nipoti. È tempo di sedersi a tavola quando nonno ti guarda sorridendo e, dolcemente, con quel tono che solo i nonni possono avere, ti parla: ho una sorpresa per te, dice, sei pronto? Certo che si, dai, fammi vedere. Lui va verso il suo studio, tu lo segui. Cerca su una scrivania ingombra di libri, appunti, pagine scritte a mano, una busta. La trova, te la porge. Apri col cuore che batte, chissà cosa ci sarà in quell’universo enorme rappresentato da una semplice busta. Due talloncini. Non capisci, non è un gioco, non è nulla di conosciuto. Tuo padre, alle spalle: prendili, leggi cosa c’è scritto sopra, tu obbedisci. Inter-Torino, tribuna centrale, domenica 26 novembre 1972. Sei emozionato, un turbine di sensazioni attraversa la mente, sensazioni che ricorderai quarant’anni dopo come fosse ancora domenica 26 novembre. Nonno ride, papà ride, mamma e nonna ridono mentre l’emozione ti sorprende e una lacrima di gioia riga la guancia.

Dai, un panino e andiamo dice papà. Ma hai lo stomaco chiuso, mangi senza assaporare nulla. San Siro, l’Inter, la partita, perché sempre lì corre il tuo pensiero.

Partiamo, direzione stadio. Parli poco, ti guardi intorno scoprendo luoghi di Milano che non sapevi esistessero, quartieri dove non eri mai stato prima. Poi, all’improvviso, dal nulla, eccolo. San Siro. Enorme, immenso, alto, imponente. Mette quasi paura. E tante piccole formichine che corrono a destra e a manca, cuscinetti nerazzurri sotto braccio, bandiere al vento, sciarpe colorate al collo, odore di salamella e caldarroste. Ti fermi davanti a una bancarella, appena fuori dalla cancellata che ti divide dall’ingresso in quel tempio pagano. Domandi a papà una bandiera, che ancora oggi conservi gelosamente. C’è una piccola coda all’ingresso, cinque minuti di attesa. Ti guardi intorno, ancora non credi stia capitando davvero; ancora non credi di essere proprio lì, proprio tu, col tuo cappellino in testa a proteggerti dal freddo. Passi il check point mentre gli steward verificano l’autenticità dei tagliandi presentati; ora sei dentro, in quella terra di nessuno che divide la cancellata da un secondo punto di controllo. Altri steward, altre occhiate severe; va tutto bene, potete passare. Non stai più nella pelle, senti il brusio provenire da un luogo imprecisato mentre sali i gradini due a due e papà ti richiama: Gabriele, vai pieno che non scappa nessuno. Il flusso di persone si ferma improvvisamente, il brusio che sentivi poco prima ora è rumore vero e proprio. passo dopo passo procedi verso un punto da cui la luce penetra. È l’ingresso al paradiso pallonaro e, dopo un paio di minuti, San Siro si apre in tutta la sua vastità, mentre una signorina gentile mostra agli spettatori il settore verso cui devono dirigersi. Da casa il campo sembra più grande, mediti. Pensiero di un attimo, che come arriva così se ne va. E i colori, la voce dello speaker, gli estintori meteor e il motel siesta, a pochi minuti d’auto da Milano. Poi la folla, le urla, il tifo, i giocatori che quasi li tocchi, la punizione a foglia morta di Mariolino Corso, l’esplosione di gioia, la sofferenza, il raddoppio di Massa. Finisce così, due a zero, mentre sventoli felice la tua bandierina e la gente abbandona i propri posti per tornare a casa a riscaldarsi. Prendi per mano papà, tornate verso l’auto e da lì dai nonni, per cenare insieme a loro, raccontare, emozionarsi ancora e ancora.

Domenica, 26 novembre 1972: la mia prima volta allo stadio.