Tornare a urlare: Diego! Un’emozione antica, per i tifosi del Napoli. Un’eco potente per tutti, anche i tanti nati molto dopo l’addio del più grande di sempre. Non può sfuggire la simbologia del goal decisivo dell’ex capitano del Lipsia, Diego Demme, nella serata in cui gli azzurri erano chiamati a confermare se stessi. Vincere a Genova non era solo un imperativo di classifica, serviva come ossigeno puro, un potente ricostituente per tornare a considerarsi un gruppo vero e degno delle proprie qualità tecniche.

Difetti e problemi non sono andati magicamente via con le tre vittorie consecutive, fra Coppa Italia e campionato, ma è tornata la squadra. Dalla Lazio alla Sampdoria, passando per la decisiva serata contro la Juventus, lo stesso linguaggio del corpo dei giocatori in campo appare diverso, come la partecipazione ai goal e la voglia di dare una mano al compagno in difficoltà. Segnali, segnali di Napoli.

Senza dubbio, i nuovi acquisti hanno portato solidità nella zona nevralgica del campo e giocatori utili a coprire palesi buchi d’organico, ma soprattutto il mercato di gennaio ha pompato aria fresca nello spogliatoio e nell’ambiente. C’era bisogno di gente votata al sacrificio e libera da quei condizionamenti mentali, che hanno affossato la squadra nello scorso, tragicomico autunno. Parlavamo di segnali e fa certamente impressione che ieri Diego Demme abbia segnato appena il suo terzo goal in carriera, 28 anni dopo l’ultimo goal in azzurro del Pibe e proprio nella serata in cui il Napoli DOVEVA vincere.

La squadra di un mese fa non avrebbe saputo trovare le energie nervose, per reagire e decidere di far sua la partita. Non è un caso, che proprio lui si sia trovato nel cuore dell’area di rigore, pronto a scaraventare in rete un goal di eccezionale peso per l’intera stagione. Demme può essere il volto del Napoli che verrà. Non un fenomeno, un giocatore ‘normale’, ma terribilmente utile e pronto a comparire come per incanto, lì e quando serve. C’era un altro calciatore con questa dote innata, capace di fare un pezzo di storia del calcio italiano, anche senza poter vantare dei piedi di velluto: si chiamava Rino Gattuso e ieri ha vissuto gli ultimi 10 minuti del match praticamente in campo. Perché i capelli e la barba ingrigiscono, ma l’animus pugnandi non invecchia mai e i tuoi i ragazzi in campo lo sanno, lo avvertono. E non è più tempo di mezze serate e pessime figure. O la va o la spacca e da dieci giorni sta andando. Finalmente.

Proprio la volontà e la convinzione, del resto, hanno deciso la serata di Marassi. Anche la qualità, ovvio, ma quella non è mai mancata al gruppo azzurro: fino a poche settimane fa, però, non era al servizio del collettivo, ma tutt’al più di rivendicazioni personali.

Gravissimo errore, adesso, sarebbe considerare il più fatto. Peggio ancora, cominciare a fare calcoli sulla Roma e l’Atalanta, in ottica Champions League. Un nuovo gruppo, l’embrione di una nuova squadra – anche quella che vedremo l’anno prossimo, una volta completata la rivoluzione – deve badare a se stessa, a definire i propri confini, rivedendo i propri limiti. Lasciamo legittimamente ai tifosi la classifica e i calcoli calendario alla mano, il Napoli ha l’opportunità di dare un senso alla stagione, ma solo un mese per provare a farlo. Fra semifinale di Coppa Italia, partite teoricamente abbordabili in campionato e l’affascinante e proibitiva sfida al Barcellona, in Champions League, a fine febbraio sapremo molto. Quasi tutto.

Godiamoci questa sfida e mettiamoci tutti la maschera del volto squadrato e antico di Diego Demme.