Esistono calciatori che non importa cosa, come, chi, quando. Esistono calciatori che non hanno bandiera perché sono patrimonio di una intera nazione pallonara. E poco importa per chi fossero tifosi da piccoli – nella fattispecie il nostro simpatizzava nerazzurro ma, a domanda diretta, ha sempre risposto: “Per la squadra della mia città, il Vicenza. O, al massimo, per il Boca Juniors” -. Riescono comunque a toccare il cuore e illuminare gli occhi di chi li guarda.

È il 16 maggio 2004, un pomeriggio che racconterà la storia, immensa, di uno dei più grandi giocatori di calcio italiani, indipendentemente dal periodo storico: Roberto Baggio. Il Meazza è pieno come un uovo in una giornata primaverile, c’è da salutare il Milan campione d’Italia: ma non è e non sarà l’unico appuntamento importante perché, quel 16 maggio 2004 il Divin Codino, o Raffaello o, in alternativa, il suo soprannome preferito, “El Cioso”, coniato dagli amici del paese, Caldogno, dove nasce il 18 febbraio 1967, ha deciso di smettere di rincorrere un pallone in pantaloncini corti su e giù per un prato verde.

Roberto Baggio è stato il calcio fin da ragazzino, fin da quando, a soli sedici anni, esordisce in C1 con la maglia del Vicenza. Tre anni in biancorosso, gli osservatori della Fiorentina a seguirlo passo passo fino ad acquistarlo, fine aprile 1985, per una cifra intorno ai due miliardi e mezzo di lire. Roberto si infortuna al legamento crociato del ginocchio destro, ma i viola non si tirano indietro e onorano l’impegno preso precedentemente col Vicenza. Baggio va a Firenze dove viene curato da Carlo Vittori ed Elio Locatelli, medici specializzati nel potenziamento muscolare in atletica leggera. Vede i campi della serie A il 21 settembre 1986, in casa, contro la Sampdoria: ma il destino, balordo e infame, si accanisce contro il ragazzo, che si infortuna nuovamente la domenica successiva. Stop fino alla primavera dell’anno dopo.

Passa alla Juventus nell’estate del 1990 per un cifra record all’epoca: 25 miliardi di lire più il cartellino di Renato Buso, giovane talento emergente dei bianconeri. A Torino rimane un quinquennio e l’avvocato Agnelli lo battezza ‘Raffaello’, per le pennellate con cui segna o manda in rete i compagni di squadra. Passa alla storia per il gran rifiuto di voler calciare un rigore, contro la Fiorentina, il 6 aprile 1991, e la Juventus perderà quella gara uno a zero, grazie all’errore dal dischetto di De Agostini. A Torino si incontra e scontra con Marcello Lippi il quale, di Roberto, disse: “è una persona di cui non ho stima e che non reputo importante dal punto di vista umano”. Il tutto a seguito della confessione del fantasista veneto che aveva rivelato di una richiesta del tecnico viareggino: quella di fargli i nomi di chi, nello spogliatoio, non remava nella sua stessa direzione. Lippi si arrabbia minacciando querele che poi non arrivano.

Ma il rapporto con i tecnici è sempre stato problematico. Ad esempio quello con Arrigo Sacchi, a cui non perdonò mai la sostituzione a USA 94 dopo l’espulsione di Pagliuca, e che lo convoca in nazionale solo dopo la sua partenza da casa Juventus in direzione Milano sponda rossonera. Inoltre Baggio non gradisce la metodologia di lavoro sacchiana: e come non stare dalla sua parte? Lui, la fantasia e la genialità al potere, rinchiuso in una gabbia schematizzata per il bene (?) della squadra. Sta di fatto che Roberto trascina letteralmente i compagni alla finale mondiale di Pasadena, giocata non al massimo della forma fisica e persa ai calci di rigore, uno dei quali calciato alto proprio da lui.

Il biennio al Milan lo vede in contrasto con Fabio Capello e in una situazione di vivi e lascia vivere con Tabarez, che lo utilizza in maniera addirittura minore del suo predecessore. Doveva andare a Parma, ma il no di Enrico Chiesa e il ni di Carlo Ancelotti lo fanno approdare a Bologna. Seconda giovinezza, stagione di altissimo livello con le solite diatribe con l’allenatore; stavolta è il turno di Renzo Ulivieri e di nuovo valigia pronta, direzione Milano, stavolta sponda nerazzurra.

Il primo anno è un supplizio, errori dirigenziali rompono il giocattolo che tanto bene aveva fatto: l’allontanamento di Gigi Simoni resta un mistero nella storia nerazzurra, ma la squadra ne risente, eccome. Per di più, durante il suo periodo interista, ecco rispuntare Marcello Lippi. È la fine del rapporto di Roberto con Milano. Finisce a Brescia, dove disputa quattro stagioni ad altissimo livello, una terza giovinezza. L’abbraccio del Meazza, quel 16 maggio 2004, è l’abbraccio di un popolo di tifosi che è sempre stato al suo fianco. Perché Roberto Baggio è quella roba lì, non ha connotazioni né bandiere. È solo Roberto Baggio.