Oggi il calcio è lo sport più popolare nel Bel Paese con i suoi praticanti, circa un milione e mezzo, oltre ai quasi quindicimila club sparsi per la penisola: numeri da capogiro per la terza, o quarta o quinta – dipende da chi analizza i dati – industria del paese. Ma, ovviamente, non è sempre andata così.

La primogenitura pallonara, dal punto di vista prettamente legale, appartiene al Genoa Cricket and Football Club, nato nel 1893 e vincitore di 9 scudetti, l’ultimo dei quali nella stagione 1923/24. Quello che molti, però, non sanno, è che il club ligure adottò il rossoblù nell’anno 1899 mentre prima scendeva in campo vestendo il bianco. Primogenitura legale, dicevamo. Già, perché del foot-ball si ha notizia fin dal 1887 quando Edoardo Bosio, apprezzato commerciante di prodotti tessili, al rientro da un lungo soggiorno in terra britannica, diede vita al Torino Football & Cricket Club. Un paio d’anni dopo, sempre nel capoluogo piemontese, il duca degli Abruzzi e il marchese Alfonso Ferrero de Gubernatis Ventimiglia crearono la squadra dei Nobili: in seguito, nel 1891, le due formazioni si fusero nell’Internazionale Football Club di Torino.

Ma quel che ci interessa trattare oggi, e non solo, sono le storie di alcuni pionieri del calcio nostrano. Storie divertenti, strane, particolari. Come, ad esempio, quella del campo di Via Goldoni a Milano, sede prescelta per le partite dell’Inter dal 1913 al 1930 con annessa inaugurazione in grande stile, il primo gennaio 1913 per l’appunto. Perché proprio il campo Goldoni – in seguito rinominato Virgilio Fossati in onore del grande capitano nerazzurro perito a Monfalcone nel corso della prima guerra mondiale e il cui corpo non venne mai rinvenuto – e non un altro? Perché, in quell’impianto, accaddero i primi incidenti tra tifosi riportati dal giornali, con tanto di arresto incluso.

La partita incriminata fu Inter-Casale, 21 giugno 1914. Vinsero i piemontesi due a uno ma il pubblico nerazzurro non gradì la direzione del signor Laugeri di Genova, di professione medico, il quale allontanò dal campo quattro calciatori. A quel punto la folla, che già si era assiepata a bordo campo protestando per le decisioni arbitrali, invase il terreno di gioco. Parapiglia generale, numerosi feriti, squalifica dell’impianto per tre mesi e multa di cinquecento lire alla Società nerazzurra.

Sempre i tifosi interisti, qualche anno dopo, si resero protagonisti di un “rapimento” calcistico stile ratto delle sabine. Funzionò circa così: l’Inter era interessata a un giovane attaccante molto promettente, Leopoldo Conti, all’epoca militante nell’Ardita Ausonia. Quando i dirigenti nerazzurri andarono per chiedere informazioni sul ragazzo venne loro risposto che Leopoldo era stato “ceduto” all’Enotria, altro club milanese. L’Inter provò a trattare, ma ottenne risposte negative. Così, al termine della prima partita giocata da Conti con la nuova maglia, alcuni tifosi entrarono in campo, se lo caricarono sulle spalle come per festeggiare ma, in realtà, scapparono velocemente lungo le vie di Milano.

Quando il ragazzo chiese spiegazioni si sentì rispondere: “siamo tifosi dell’Inter, ti stiamo portando in sede per firmare il contratto“. Leopoldo si accasò all’Inter definitivamente, scongiurando di fatto uno scontro fisico tra tifoserie, grazie al pagamento di ben 100 lire all’Enotria; divenne capitano interista a soli ventidue anni grazie ad un carattere forte e risoluto, nello spogliatoio lo chiamavano il Duce, conquistando due scudetti e “battezzando” un centravanti diciassettenne che si stava affacciando al mondo pallonaro: Giuseppe Meazza. Ma di questo parleremo un’altra volta.

Così come particolare fu la storia di Carlo Rampini, bomber della Pro Vercelli con la quale scese in campo 99 volte segnando la bellezza di oltre 100 reti, per alcuni 106 per altri 108 ma poco importa, e alla quale legò indissolubilmente il proprio nome. Era soprannominato “il folletto” proprio per la sua straordinaria capacità di infilarsi tra le maglie delle difese avversarie e bucarle senza pietà, dotato di un tiro definito, a quei tempi, formidabile. Venne squalificato a causa di presunto professionismo: tutto partì perché il presidente bianconero Luigi Bozino lo ricompensava con dei sigari per ogni gol segnato. Rampini, in un secondo tempo, rivendeva quei sigari acquistando le medicine che servivano a curare il fratello di un suo compagno di squadra, e amico fraterno essendo praticamente cresciuti insieme, Carlo Coma.

Lasciò la Pro Vercelli a fine 1913, accettando una proposta lavorativa proveniente dal Brasile. Poi, nel 1915 con la guerra ormai in pieno svolgimento, a soli ventiquattro anni, chiuse definitivamente la carriera calcistica decidendo di occuparsi dell’azienda agricola di famiglia. Sport illustrato, nel 1915, lo definiva così: “combattente più abile, più aspro, più coraggiosamente attivo…in gara è testardo, quasi cattivo, ama la lotta, Rampini non si è mai inchinato di fronte a nessuno”.
Pionieri.