In questo lunghissimo e doloroso periodo, in cui siamo rimasti privi anche della gioia collettiva del calcio, possiamo però regalarci delle riflessioni oneste, sulla nostra grande passione.

A Napoli, parlare di pallone significa parlare di un’unica squadra, un unico colore, miti e leggende ben definiti. Un caso unico, nel panorama delle grandi città italiane, tutte divise visceralmente fra colori e amori inconciliabili. A Napoli, esiste solo il Napoli. Da sempre. Appare persino inconcepibile la spaccatura che Roma o Milano considerano parte stessa del loro vivere quotidiano. Nel capoluogo partenopeo, l’avversario viene idealmente da fuori, mentre spesso nel resto del paese è il tuo vicino di casa o di frequente tuo fratello o tua madre. Ovviamente, anche in riva al Golfo si contano decine di migliaia di tifosi della Juventus, del Milan, dell’Inter o della stessa Roma, ma è diverso. Sono tifosi che perdoniamo, perché deviati nel loro percorso d’amore calcistico in tenera età. Li viviamo come un simpatico male necessario. Non avendo un derby, non concepiamo neppure la lacerazione ben nota nella capitale, ad esempio, dove il giorno dopo la sfida stracittadina in molti fanno fatica a raggiungere i posti di lavoro, nel terrore degli sfottò crudeli che li attendono.

Eppure, da molto tempo la Napoli del tifo non è più quella in cui sono cresciuto. Allevato nel culto dello stadio San Paolo, un muro umano senza soluzione di continuità, in grado di impressionare anche i più scafati campioni internazionali, sempre più spesso fatico a riconoscere quel catino e i suoi ampi spazi vuoti. Si dirà, la televisione ha cambiato tutto, si gioca troppo, costa troppo andare troppe volte allo stadio. Tutto vero, ma insufficiente a negare l’evidenza: il tifo del Napoli si è imborghesito.

Curiosamente, è accaduto subito dopo il momento più basso della sua storia, quando la squadra è emersa dalle ceneri di un fallimento epocale, riconquistando un rango europeo in tempi brevissimi. Ciò che avrebbe dovuto spingere le persone allo stadio, ha finito per allontanarle. Il perché è paradossale e presto detto: Il Napoli è rimasto vittima del suo stesso successo. Cresciuta sorprendendo l’intero ambiente, la società azzurra è stata accusata da buona parte dei tifosi di non aver compiuto l’ultimo miglio. Per essere più precisi, il presidente, Aurelio De Laurentiis, è finito per diventare la valvola di sfogo di ataviche frustrazioni, per non aver saputo vincere quello scudetto, catarsi di un’intera città.

È una condanna palesemente ingenerosa, figlia di una semplificazione della realtà che non ha vissuto solo Napoli, ma tutta Italia. In un passaggio storico, in cui abbiamo preteso di spiegare e comprendere elementi di elevata complessità con un paio di tweet, il calcio non poteva restare immune. Così, dimensioni economiche, bacini di utenza, tradizioni e logica vengono spazzati via da uno slogan populista e insopportabile: ‘Aurelio, caccia i soldi’. Su questa base, di rara pochezza intellettuale, si è minato lo storico rapporto Napoli-tifosi. Ci vorrà del tempo a sanare le ferite e non sarà né facile, né automatico. Per cominciare, sarebbe fondamentale essere meno ‘politici’ e più appassionati.

Omnia vincit amor, ma ci vuole cervello, oltre che cuore.