Il Milan deve essere bravo due volte in questo derby: la prima, possibilmente, in campo, dando tutto quello che ha e vivendo la partita con orgoglio e spirito; la seconda dal fischio finale in poi, nella gestione di una eventuale battuta d’arresto. Cosa che non deve essere data per scontata, ma che può capitare, come in questa stagione è successo a tante avversarie dei nerazzurri. Questo perché la ferita è ancora fresca: a causa degli strascichi post-derby, i rossoneri si sono giocati niente meno che la Champions League nella scorsa stagione. Il problema dello scorso campionato non è stato tanto aver resuscitato l’Inter perdendo il derby di ritorno in cui il Milan era favorito. Il vulnus vero è stato non lasciare tranquillo Gattuso sia prima che dopo il derby: le parole del tecnico calabrese, stanco per le continue pressioni, avevano allarmato la squadra che nelle 6 partite post-derby fece soltanto 5 punti, assolutamente sotto la media tenuta per tutto il girone di ritorno.

Il derby è una partita particolare e fa storia a sé: va dunque messo in pratica questo noiosissimo luogo comune, super trito e ritrito. Il derby è una partita a parte significa che la vita e il campionato continuano, anche e soprattutto dopo il derby, comunque sia e comunque vada. Se il Milan vuole avere speranze europee deve fare 38 punti nel girone di ritorno, se vuole coltivare speranze ancora più alte ne deve fare 42. Dopo il derby, ci saranno altre 16 partite con 48 punti in palio. Se il Milan tiene la media dei 7 punti fatti nelle prime 3 partite del girone di ritorno, in Europa ci va. Ecco perché anche in caso di sconfitta, non sarà finito nulla.

Non è maniavantismo, ma presa d’atto di come gira oggi la ruota del calcio. Basta poco per invertire la rotta, in un senso o nell’altro. Lo conferma il Milan stesso. Dopo Bergamo e dopo il pareggio con la Sampdoria, sembrava tutto perso, tutto finito, tutto da buttare. E invece, se a Natale i punti di distanza dal quarto posto erano 14, ora sono 7. Non che sia una sciambola da villaggio del mulino bianco, ma non è finita finché non è finita. E non sarà finita, nemmeno nel caso in cui dovesse vincere il derby l’Inter che con 19 punti di vantaggio è nettamente favorita.

La gestione dell’umore e dei fattori esterni nel calcio di oggi è fondamentale. Il Verona si era presentato a San Siro, per chi non vive il calcio di pancia ma con attenzione a tutto quello che accade durante le settimane e durante la settimana, non da neo-promossa, ma da squadra in serie positiva di risultati utili (cinque, prima dei pareggi contro Milan e Lazio) e di gol: sempre a segno la squadra di Juric nelle 12 partite prima di Lazio-Verona. È facile allora capire che se hai una emergenza infortuni-squalifiche di 6 giocatori e se vai in campo con 2 giocatori non al meglio, oggi prendere il Verona non è semplice.

Non che il Verona sia il Real Madrid, ma in questo momento è una delle squadre più elettriche e in forma del campionato. Piaccia o non piaccia. Ma dopo l’1-1 con il Verona, è scoppiato il dramma. Gli sfoghi dei tifosi, gli scenari apocalittici dei media. Ma la realtà del campo e della squadra è diversa dalla realtà “che passa”. Quello che “è passato” è che se Ibra ha l’influenza, il Milan non c’è più e che la società si è “dimenticata” di prendere un centravanti a fine mercato. Tutto falso, tutto vago, tutto tendenzioso. Contro il Verona, il Milan non aveva fuori solo Ibra. Non c’erano tutti contemporaneamente, tre centrocampisti come Bennacer, Biglia e Krunic, non c’erano due difensori come Kjaer e Conti, cosa che ha costretto i rossoneri a schierare il diffidato Musacchio accanto al diffidato Romagnoli.

E non c’entra nulla il centravanti che non è stato preso a fine mercato, primo perché almeno un mercato di parziale abbattimento del passivo di bilancio con un segnale alla Uefa, che aspetta al varco il Milan sul fronte fair play finanziario, bisognava farlo; secondo perché prendere tanto per prendere è un palliativo inutile. Per capirci, un tifoso mi ha scritto che anche Matri andava bene. Rispondo no, con tutto il rispetto per Ale: il tema è esigere di più da Leao, non andare sui fondali del mercato nelle ultime ore di una finestra invernale.

Ecco, Leao. Ho personalmente avuto una lunga telefonata, questa settimana, con Dejan Savicevic dal suo felice eremo di Podgorica. Dejan è sempre Dejan, è stato alto dirigente, è stato allenatore, dopo essere stato un Genio in campo. Dejan da lontano vive di pane e di calcio italiano. Vede tutto e segue tutto, non lo si prende in giro. Parlando di Leao, non ha dato giudizi Dejan. Ma ha dimostrato di aver capito tutto: la sua carriera dipende da lui e dalla sua testa. Un talento come il suo nessuno lo può aiutare, può solo aiutarsi da solo. Deve decidere lui da solo, con la sua testa, cosa vuol fare da grande Leao. Il talento ce l’ha ed è tantissimo, ma da solo non basta. Parole sante, caro Dejan.