Perché Giampaolo era un profilo adatto al Milan e invece non lo è Rangnick? Al di là di simpatie o antipatie, di conoscenza o di non conoscenza del calcio italiano, ripeto la domanda. Perché? Non sta scritto da nessuna parte che il tedesco venga al Milan, non ci sono firme e non ci sono contratti. Nel rispetto della verità e, non secondariamente, di Stefano Pioli che merita continuità e fiducia, non a parole ma nella sostanza. Eppure il tema resta. Perché non è adatto Rangnick che ha portato lo Schalke in semifinale di Champions League nel 2011 (il Milan non fa una semifinale di Champions League dal 2007) e che ha portato l’Hoffenheim dalla terza serie tedesca al settimo posto in Bundesliga e che fa funzionare come orologi le corazzate della Red Bull come il Salisburgo e il Lipsia? Perché il nostro è un calcio dell’effimero, dell’attimo fuggente. Basta che due si trovino in qualsiasi Bar dello sport e inizino a dire: cosa ha vinto? Non conosce il calcio italiano! Due frasi da scuola materna del calcio, senza alcun approfondimento, senza ricerca, senza conoscenza, senza nulla. Le stesse frasi che Boban e Maldini si sentivano dire fra ottobre e novembre: Elliott ha sbagliato, due dirigenti alle prime armi, troppo inesperti. Oggi invece sono le bandiere che non sbagliano mai, gli eroi della libertà di pensiero. Non era vera la prima e non è vera la seconda.

Quando si passa da una sponda all’altra senza tonalità di grigio, non si può non sentire puzza di bruciato. E quindi di alleanze, di antipatie, di riposizionamenti. Perché nessuno fa un giro dalle parti di Rino Gattuso, che ha domato l’indomabile a Napoli e che ha riportato su una stagione super compromessa, per sapere cosa ne pensa, con la sua passione e con il suo milanismo, degli ex giocatori che hanno guidato l’area tecnica del Milan negli ultimi due anni? Troppa foga per Rino, magari contaminato dal rapporto di affetto con Mirabelli? Può essere, ma Mirabelli è stato presente nella vita di Gattuso per un anno, mentre il cuore rossonero di Ringhio batte da quando è ragazzino. Difficile che quando parla dei temi fondamentali rossoneri, che sono gli stessi della sua vita, abbia più a cuore un dirigente conterraneo che pure gli ha dato fiducia rispetto al suo caro vecchio Milan di sempre.

Il tema degli ex campioni è molto delicato, perché si vanno a toccare corde molto importanti. I tifosi ce li hanno negli occhi mentre sono in campo, ma una proprietà e una azienda che fra Piatek, Paquetà, Giampaolo e company ha perso 250 milioni lordi sul mercato, li valuta oggi, in ufficio, in team, alla scrivania. E in una azienda, perché il calcio di oggi non può non essere una azienda, non si gioca ma si progetta, non si segna ma si lavora. E negli equilibri aziendali, se un Ceo, su mandato della proprietà preoccupata e con gli occhi di fuori per i risultati sportivi ed economici, si preoccupa dell’andamento della società e contatta professionalità alternative al Bar dello sport, lo fa e basta. Senza dover rendere conto a nessuno se non alla proprietà. Difficile, comprensibilmente molto difficile, capisco perfettamente, trangugiare il concetto per gli idoli dei tifosi, ma purtroppo o non purtroppo, è così. È quel salto che va fatto, dal campo che non c’è più alla scrivania dove il mondo è tutto diverso.

Chiedo anticipatamente scusa per essermi ritagliato un po’ di righe fuori dall’incubo. L’errore in cui cadiamo tutti, sotto l’emergenza del virus, è di parlare del calcio che c’era fino all’altro ieri mattina. Mentre non esiste sceneggiatore che possa adesso scrivere una qualsiasi trama sul calcio del “dopo”. Nessuno di noi può immaginare cosa sarà il calcio dopo essere stato azzerato, come tutti gli altri settori della vita, dalla tragedia che si compie ogni giorno sotto i nostri occhi. Quando finirà, ripartirà da zero anche il calcio. Con più valori e con meno milioni. Con più progetto e meno follie di mercato. Con la Uefa che dovrà limitare il Fair play finanziario per consentire ai club di rinascere, esattamente come la Ue ha concesso ai governi nazionali di tamponare la crisi investendo in deficit. Nel calcio ci saranno così pochi soldi che chi li ha li spenda. O quasi. A naso, non potrebbe essere altrimenti.

Vale per Ibra, vale per Gigio. E vale per tutti gli spauracchi che, giorno dopo giorno, senza partite e con tanta angoscia, vengono agitati davanti agli occhi dei tifosi rossoneri: oggi non si può immaginare e pianificare nulla, per i tempi diversi dell’espansione dell’epidemia in tutta Europa e in tutto il mondo. Ma il Milan una proprietà che non ti lascia in mezzo alla strada ce l’ha, una dirigenza che ci mette la faccia anche a porte chiuse nel deserto di Milan-Genoa, come se quella squadra l’avesse costruita lui, ce l’ha. Ma certo che l’ha costruita lui, perché in un grande club una cosa quando è fatta, giusta o sbagliata che sia, l’abbiamo fatta noi. Noi. Non io e non lui. Ma ai tifosi questo non basta. I tifosi vogliono giustamente il Milan di nuovo in alto, bello, competitivo, ambizioso, vincente. Lo vogliamo tutti. Ma il percorso spericolato fuori dalle acque territoriali del Fair play finanziario ha messo il Milan spalle al muro. E non dall’inquadratura di Gazidis in Milan-Genoa, ma da tanti anni a questa parte. E al Milan ci sono anche esperti che il calcio lo conoscono, al punto da scandagliarne tutti i fondali. Chi bazzica il Milan lo sa chi ha messo la prima pietra di Rebic, Theo Hernandez e Bennacer. Ma dirlo adesso significherebbe solo farsi strumentalizzare, aizzare e tornare sulla strada sbagliata. Li ha presi il Milan. Questo deve tornare ad essere, una volta per tutte. Il Milan e basta, non il Milan delle anime e delle fazioni. È su questo tema che nel 2013 è finito il Milan. Ed è su questo tema che si ricostruirà il Milan.