L’area sportiva di un grande club calcistico non è un ramo d’azienda. E non è nemmeno una società nella società, una repubblica a parte, uno stato nello stato. Sembra ovvio, ma vale la pena rimarcarlo in un momento in cui c’è grande dibattito sul futuro dell’assetto sportivo del Milan. Con un’aggiunta fondamentale: proprio in quest’ottica, il board di un club deve essere un team compatto forte dell’unità fra tutti i settori, quello sportivo come quello commerciale, quello della comunicazione come la logistica, il marketing e tutto il resto. E non si tratta di fare team building, l’alchimia deve nascere fin da subito, spontanea e vivida, come una scintilla: o c’è o non c‘è.

Il Milan ha avuto per 25 anni una squadra dirigenziale che si capiva al volo e che non aveva bisogno di concentrarsi o di riunirsi per essere una famiglia: lo era, punto. BerlusconiGalliani-Braida-Ramaccioni. Condivisa da tutti o meno, qualsiasi linea era patrimonio comune e difesa da tutte le componenti. L’unico ex giocatore del quartetto era Ariedo Braida, che era stato un normalissimo centravanti degli anni Sessanta e Settanta fra Monza e Varese, fra Cesena e Parma. Alla scrivania Ariedo ci è arrivato con tanta fame e con tanta determinazione, non come un ripiego. La sua vera carriera è iniziata proprio dopo aver smesso di giocare.

Oggi, invece, per chi è stato una grandissima stella sul campo, è diverso. È difficile calarsi nella realtà di un ufficio, immergersi nelle riunioni, fare proprie le visioni aziendali. Per chi è stato baciato in fronte dalla Storia è dura fare gruppo, fare spogliatoio con la routine aziendale e con le funzioni di tutti i giorni. Capita quindi di rimanere nel proprio buen retiro, “io ho giocato, io ho provato, io so, io decido”. Non è colpa di nessuno, è un fatto. È un tema che il Milan conosce bene, e non da ieri mattina, o dalla mattina dell’intervista di Zvone Boban. Ma da quel maggio 2002 in cui Franco Baresi, la bandiera per eccellenza, aveva accettato la proposta di diventare uomo-mercato del Fulham proprio perché faceva parte dell’organigramma del Milan, ma non dei processi decisionali del Milan. Il grande campione e i dirigenti d’azienda che non hanno giocato, un connubio non semplice. Alcuni toni che ha avuto Boban nei confronti di Gazidis hanno ricordato quelli di Francesco Totti verso l’ad giallorosso Baldissoni dei mesi scorsi. Sono premesse doverose, per capire quello che sta accadendo all’interno del Milan. Dove i tifosi tendono a vedere guerre di religione, laddove c’è semplicemente una chimica aziendale non riuscita, una linea della proprietà alla quale i simboli dei tifosi tendono a sovrapporsi.

Il Milan non sta producendo martiri. Il Milan è molto dispiaciuto. Se ci saranno rapporti da chiudere, il Milan non lo vuole fare male, ruvidamente. Il Milan non ha violato la sacralità della propria area sportiva. Se fosse costume di Ivan Gazidis svuotare l’ambito decisionale dei propri dirigenti sportivi, azzardiamo ma neanche troppo, il buon Rino Gattuso sarebbe ancora al Milan. Al contrario di come viene dipinto, è tutt’altro che un mangia-allenatori il dirigente di Johannesburg. Stefano Pioli ad esempio: so bene che ci sono molti autorevoli colleghi che danno già tutto fatto e tutto firmato, ma insisto, Pioli se la sta giocando e se la può giocare, come, aggiungo, è giusto e come Pioli merita.

Su un piano più generale, Gazidis sa bene di stare sfidando la pazienza dei tifosi messa a dura prova da tanti anni di delusioni e di involuzioni, di passare come l’affossatore dei miti, di non avere grande credito presso la media degli opinionisti su piazza a Milano. Sa di dover passare attraverso le forche caudine di San Siro e dintorni, ma non può esimersi: la sua azienda perde 100 milioni all’anno e il sesto posto finale di questa stagione è a rischio e, siccome non è un alieno dentro la sua società, è di queste cose che si deve occupare. Che pensi agli sponsor? Senza risultati e dopo tante stagioni negative, gli sponsor non stanno bussando alla porta, purtroppo. E poi attenzione, a mettere a rischio la stagione non è il capo-azienda che parla con degli allenatori, ma la scansione stessa delle cose perché l’orizzonte sportivo di Stefano Pioli sul piano contrattuale lo ha sancito non l’ad invasore e decisionista ma la parte sportiva nel convulso cambio con Giampaolo dello scorso mese di ottobre.

Dice il saggio: prima di andare in Gazzetta, Gazidis doveva ricompattare Boban e Maldini. Torniamo all’alchimia: o c’è o non c’è e in questo caso non c’è. L’unica via che aveva Gazidis era la mano tesa a mezzo stampa, la dichiarazione pubblica, come quando ci si apre a cuore aperto in piazza nei programmi tv. Lo diceva anche Adriano Galliani a volte: inutile parlare a tu per tu, o le cose le dici in pubblico o è come se non dici nulla. Ma non è servito. C’era il vulnus Rangnick, in fondo un grande allenatore sentito come tanti altri per capire, per parlare di calcio, per arrivare al dunque: è possibile essere una società normale, moderna, che produca buon calcio invece di salassi economici?

E siamo a Boban. Zvone è un uomo di una coerenza mostruosa. La mattina dell’intervista alla Gazzetta, ho riconosciuto il Boban di sempre, quello che nella primavera del 2001 metteva sotto accusa con me la crisetta di quegli anni, 2000 e 2001, del Milan di Silvio Berlusconi. Zvone non ha mezze misure, Zvone non media, né con se stesso e nemmeno con gli altri. Non è artefatto, non è finto, non è calcolatore. Lui è così. Diretto, senza filtri e senza ghirigori. Con l’amore per il Milan che si aggiunge al quadro del suo corredo cromosomico. A complicarlo o ad arricchirlo, fate voi.

I tempi del ritorno del Milan sulla scena ad alto livello sono lenti, la scrivania alla Fifa è ancora a sua disposizione, alla fine la sua chiarezza è stata una liberazione. Sia in pubblico (“Cosa faccio? A volte me lo chiedo anch’io”, era una battuta ma una battuta particolare…), che in privato, ad esempio sul nuovo stadio, Boban è sempre stato molto critico. Tanto vale trarne le conseguenze. Da uomo libero sul piano politico e morale, sportivo ed economico, quale Zvone è sempre stato. Sono diversi anni, dal giorno maledetto del 12 gennaio 2012, che il Milan non va bene. Oggi i tifosi, feriti da otto anni non da Milan e dalle ultime vicende, sono in subbuglio.

Un consiglio spassionato: non partite lancia in resta, non innamoratevi della verità, dell’unica cosa da fare, perché nel calcio la verità non esiste. Zvone ha detto alla Gazzetta che voleva parlare con la proprietà e la proprietà, nel silenzio, gli ha risposto eccome: dal momento che hai parlato con Gazidis, con la proprietà hai già parlato. Non è una considerazione amara nei confronti di Boban, ma l’annotazione che Gazidis non agisce in base a come si è svegliato la mattina, la sensazione che una proprietà e un management devono dirigere senza confusioni e senza mediazioni. La linea deve essere una. E solo una. Poi, certo, anche e soprattutto la linea battezzata dovrà rendere conto ai tifosi e rispondere dei propri risultati.

Tenendo sempre presente che il Milan è un bene che deve stare al di sopra di ogni cosa, anche delle singole esigenze di mettere in chiaro le cose, degli interessi o delle visioni dei singoli individui. Zvone ha sbagliato anteponendo la sua esigenza di chiedere rispetto e esprimere le sue perplessità senza condividerlo, con tempi sbagliati, prima di una partita, nel cuore della stagione, sconfessando una visione, che è quella di una proprietà che ha messo sul mercato 250 milioni lordi di euro da quando è subentrata a Li. Per il bene del Milan certe cose vanno chiarite all’interno.

Il Milan è un processo in costruzione, la visione non può prescindere dal Fair Play finanziario Uefa. E’ comprensibilmente un percorso non popolare, che richiede pazienza e gioco di squadra, lavorare in team. Serve più un’orchestra che dei solisti, per quanto prestigiosi. Elliott, tuttavia, ci ha provato a prendere grandi solisti, ma siamo dove siamo, sesti in classifica e con una squadra ancora in costruzione.