In pieno dibattito sul tema della ripartenza o stop definitivo del Campionato, con conseguenze che la gente sottovaluta perché ritiene ingenuamente il calcio solo “uno sport come altri“, nell’ultima settimana ho assistito ad un micro evento risultato una perfetta metafora di come oggi viene vissuta la dimensione della passione “sportiva”.
I tifosi della Juventus hanno infatti omaggiato il 5 maggio, rendendolo (quest’anno più di altri), una ricorrenza superiore a qualunque vittoria ottenuta nella sua storia.

Il modo in cui l’avversario interista è stato deriso e la modalità della conquista dello scudetto è stata decantata in modo godereccio, mi ha colpito per la virulenza. Come quando i tifosi interisti o milanisti hanno deriso i tifosi juventini in piazza a Torino in occasione della finale persa col Real Madrid e questo loop ha contribuito inevitabilmente a mantenere calda la brace dell’inutile disprezzo reciproco.

Maggio è il mese storicamente decisivo, quello in cui vinci o perdi una partita decisiva, un campionato, una coppa. Il 22 maggio è la data della prima Coppa Campioni del Milan, il 25 quella della clamorosa sconfitta col Liverpool, il 22 maggio la seconda vittoria della Juventus contro l’Ajax in Coppa dei Campioni, il 20, 25, 28, 30 di maggio corrispondono alle sconfitte dei bianconeri in almeno cinque delle sette finali perse e il 14 maggio corrisponde al giorno in cui la Juventus perse lo scudetto all’ultima giornata.

L’Inter il 22 maggio festeggia la conquista del triplete contro il Bayern, dopo aver vinto lo scudetto il 16 e la coppa Italia il 5 maggio.
L’Inter e i suoi tifosi celebreranno certamente la data del 22 perché vincere tre titoli importanti in pochi giorni è un’impresa epica, ma resta un omaggio auto riferito, una festa privata che non coinvolge altre tifoserie.
I fan juventini hanno scelto il 5 maggio perché è più importante che abbia perso l’Inter, oltre al naturale entusiasmo per quei momenti.

Si è andati oltre lo sfottò e più verso l’oltraggio ai tifosi interisti, pubblicando foto di persone presenti all’Olimpico che piangevano, di Materazzi e Ronaldo disperati e hanno reso questa data, con la sponda della stampa, una data da ricordare perpetuamente.

È stata la ferocia con la quale ci si è accaniti sulla carcassa di quella data, la volgarità con la quale si è voluto più dileggiare l’Inter che esaltare la Juventus, a colpirmi.
In generale i tifosi hanno uno sdegno verso la sconfitta, ritenendola inutile, nociva e dimenticabile. In risposta agli juventini i tifosi nerazzurri hanno rappresentato il 5 maggio con la vittoria della Coppa Italia all’Olimpico contro la Roma, sancendo l’inizio del triplete. Lo ha fatto anche Materazzi che ha pubblicato l’immagine di quando bacia la coppa.

La sconfitta ha tuttavia un fascino e ricordarla è un atto di maturità e grandezza, non il contrario.
È un peccato che il fallimento di una stagione o una partita venga esiliato dalla memoria dei tifosi, umiliato dagli avversari come fosse l’unico modo di trattarlo, senza accorgersi quanto sia vile l’irrisione perpetua.
Non si tratta nemmeno di ciò che insegna perdere ma di un valore, di una consapevolezza che nella storia dell’Inter ad esempio, a volte è avvenuta in modo tanto rocambolesco da ritenerla “pazza”.

Conte e Marotta questa stagione avevano cercato di togliere questa anima, in nome di una cultura più improntata verso la vittoria, esportando il concetto che è “l’unica cosa che conta”. In realtà introdurre una convinzione tanto integralista, abolendo la sconfitta, non è possibile. L’Inter ha vinto tanto nella sua storia e i suoi tifosi hanno frequentato momenti drammatici come nel 1967 in cui, in pochi giorni perse scudetto (Mantova) e finale di Coppa dei Campioni (Celtic), come l’eliminazione in casa col Bayern perdendo 1-3, come il derby di Champions e altre occasioni brucianti.

In ogni occasione è stato entusiasmante vedere come l’Inter si sia rialzata e abbia proseguito, come i tifosi abbiano anche riso ed esorcizzato certi brutti momenti. La sconfitta è molto più interessante di quanto non dica la volgarità e il rituale ripetitivo, senza fantasia dello sfottò.