L’altro giorno, dibattendo in una nota trasmissione radiofonica di questa prima parte di stagione, i miei illustri interlocutori (non juventini) dubitavano della sincerità del mio “a inizio anno avrei firmato per questi esatti risultati a fine dicembre“.

In parte comprendo questa diffidenza: la Juventus è reduce da 8 scudetti consecutivi (ogni volta fatico a scriverlo, tanto è folle questo dato), ha uno dei due più forti giocatori del mondo, ha perso Cancelo e Mandzukic ma aggiunto a una rosa eccellente de Ligt, Rabiot, Ramsey e altri giocatori. Ha poi cambiato allenatore, rinunciando al pluriscudettato Allegri per prendere un tecnico reduce dal trionfo in Europa League e più in generale da ottime stagioni con Napoli e Chelsea, cui ha dato una chiara impronta di squadra.

Perché, dunque, firmare per una supercoppa persa con la Lazio e un primo posto a pari merito con chi, pur molto quotato e con eccellenti dirigenti e allenatore (devono provenire da esperienze eccellenti, mi informerò), è comunque meno accreditato di te? Facevano bene, dunque, i miei interlocutori, a faticare a credere a quelle mie parole?

Ovviamente no, per due ordini di motivi.

La prima è una ragione per me logica ma, siccome non molto condivisa, probabilmente molto personale: vincere ogni anno lo scudetto non rende più scontato conquistare il titolo successivo, ma ben più complicato. Se nella nostra vita abbiamo visto vincere al massimo quattro campionato consecutivi (e già ci sembravano serie infinite), se nello sport non vincono sempre i campioni più forti, vuol dire che la stanchezza fisica e mentale, gli stimoli e le motivazioni rendono ciclico e inevitabile il ricambio al vertice: prima o poi nell’albo d’oro di Wimbledon, del Tour de France, del torneo Nba o del mondiale di Formula 1 compare un nome diverso. Nel calcio questo vale ancora di più: bisogna indovinare ogni anno le cessioni, gli acquisti, prevenire i cali, scommettere su chi esploderà, azzeccare l’allenatore. Possibile la prima volta, difficile la seconda, un’impresa la terza e la quarta: surreale se arrivi all’ottava. E al nono anno siamo ancora lì, con 42 punti in 17 partite. Primi nel girone di Champions, con cinque vittorie e un pareggio (un po’ casuale, all’ultimo minuto, in un campo difficilissimo). Per me, ricchi o non ricchi, favoriti o non favoriti, si tratta di risultati di tutto rispetto, tutt’altro che scontati.

Il secondo motivo è più pratico, relativo alle contingenze di questo nono anno, partito con il citato cambio di allenatore. Chi, arrivato Allegri dopo Conte, era convinto di vincere altri cinque campionati di fila? Nessuno, perché un nuovo ciclo presenta sempre incertezze: in questo caso, per di più, l’allenatore tenta di proporre una filosofia diversa. Impossibile, quindi, vedere il meglio in tre mesi. Come se non bastasse, Sarri, in piena preparazione, si becca una brutta polmonite: ok, resta vicino alla squadra, ma non può essere presente al cento per cento in allenamento e salta le prime partite in panchina. A fine agosto arriva un’altra mazzata: il “vecchio” capitano e leader, baluardo della difesa, salterà buona parte della stagione. Tutto questo nell’anno del grande cambiamento, del nuovo approccio, dei nuovi schemi. Per di più, il calendario ci mette subito di fronte a squadre forti e collaudate come Napoli e Atletico Madrid, oltre alla nuova entusiasta Inter di Conte: una squadra più fragile, con la pancia un po’ piena, potrebbe perdere quelle partite e cominciare a perdere sicurezze. Noi no, siamo ancora lì.

Avrei firmato sul serio, dunque. Non è certo colpa della Juve di Sarri se l’Inter sta facendo un super campionato ed è a pari punti. Ma firmare, essere nell’insieme soddisfatto dei risultati, non vuol dire essere contento di tutto, non avere preoccupazioni. Anzi.

La squadra, è evidente, ha mostrato le cose migliori proprio nei primi mesi, proprio in quelle partite tanto temute: il gioco era più fluido, i giocatori parevano divertirsi di più. Cos’è accaduto, più avanti, nell’almeno apparente involuzione che ha portato ai pareggi con squadre come Lecce e Sassuolo, alle due meritate sconfitte con la Lazio (tra cui il primo trofeo stagionale) e perfino alle stentate vittorie contro Genoa e Sampdoria?
E non ha senso incartarsi nel dibattito “tridente o no?”, visto che la risposta è troppo semplice per dedicare al tema tanta importanza: se i tre stanno bene, corrono e aiutano si può, sennò non conviene e si darà spazio a chi è più in forma. I dubbi sono più che altro relativi alle alternative: Bernardeschi non ha per ora reso secondo le attese, Douglas Costa ha sprazzi da numero uno ma poi sparisce per un po’ per infortuni assortiti, Ramsey è anche lui spesso alle prese con problemi fisici che ne rallentano la crescita, Rabiot mostra dei segnali di ripresa ma è ancora un piccolo mistero. Troppi punti interrogativi, per avere certezze sul futuro.

E potremmo andare avanti, ad esempio soffermandoci sulla fase difensiva (che prende sempre gol) o su quella offensiva che da un po’ non produce più quanto potrebbe e dovrebbe.
Sul mercato di gennaio che magari può aiutarci a chiarire un po’ di cose.
Sulla strada che è ancora lunga e non si sa dove ci porterà, se a trionfare ancora o ad applaudire chi sarà stato più bravo noi.
Ma intanto ci siamo anche quest’anno, su quella strada e quindi osservo, esulto, mi preoccupo, ma mi godo la corsa anche stavolta.

E so che per voi è sempre scontato ma per me no. Sennò che avrei firmato a fare?