Tra le solite imbarazzanti polemiche post Roma e pre Inter, giocare in Champions comporta alla squadra un notevole sforzo fisico e mentale ma garantisce a noi qualche giorno di respiro rispetto al ben noto tragicomico contesto mediatico di queste parti.

Così abbandoniamo quel racconto con toni gravi che vorrebbe farci sentire in colpa per avere vinto una partita complicata con un rigore contro – come sono lontani quei tempi in cui ci spiegavano con aria seriosa che un penalty dato o non dato cambia partite, campionati e vite intere – per andare sotto la neve a San Pietroburgo a vivere il bivio tipico della terza partita del girone di Champions: d’ora in avanti si lotterà strenuamente per la qualificazione con la terza del gruppo o principalmente per il primo posto con l’altra favorita?

Può apparire eccessivo ma guardando il calendario, a inizio stagione, è proprio il 20 ottobre la data segnata in rosso, quella da non dimenticare: Zenit-Juve è la partita più importante di questi primi due mesi. Non perdere, assolutamente. Pareggiare, per mantenere il vantaggio e cercare di chiuderla al ritorno. Vincere, per ipotecare la qualificazione e fare capire alle altre del girone, magari a tutta Europa e soprattutto a noi stessi, che la Juve c’è, Ronaldo o non Ronaldo.

Lo Zenit è tosto, ha distrutto come noi il Malmoe e perso all’ultimo a Londra: se lo sottovalutiamo finisce male. Anche per questo facciamo una partita diversa dalle ultime: non brillantissima, molti errori ma tanto possesso palla, prevalentemente nell’altra metà campo. 

Così corriamo qualche rischio nelle loro ripartenze ma con alcuni inserimenti di McKennie riusciamo a essere pericolosi. La sfida prosegue così fino agli ultimi minuti, quando arrivano i consueti cambi: ecco Kean e Kulusevski, che non sembrano in grande giornata. 

Ambrosini, in cronaca, si interroga su questo ingresso un po’ molle dello svedese: le potenzialità non sono in discussione, dice, ma è il momento di dimostrarle, magari proprio oggi con qualche giocata. 

E io sono combattuto, perché se da un lato è vero che Dejan entra senza la giusta cattiveria troppo spesso, dall’altra mi chiedo quanti giocatori a questa età abbiano già fatto più di 50 partite con la Juve, mostrato diversi numeri di alta scuola e risolto alcuni match tra cui una finale di Coppa Italia.

Ci avviamo verso il termine quando un pallone finisce a De Sciglio, che punta a diventare, a un passo dalla scadenza del contratto, il nostro Beckham, piazza un altro splendido cross in mezzo e a quel punto chi, se non proprio lui, Kulusevski, può anticipare tutti di testa e metterla perfettamente sul secondo palo, portandoci in vantaggio a tre minuti dalla fine? Qui ci accorgiamo di due reazioni strane: intanto lo svedese sembra non esultare, come se fosse piccato per i dubbi espressi da molti tifosi, da Ambrosini e magari anche da me; poi, soprattutto, Ramsey mostra quantomeno delle capacità divinatorie, alzando le mani per festeggiare appena il compagno colpisce il pallone, quando nessuno ha capito dove diavolo finirà e di certo non è possibile prevedere che toccando il palo poi terminerà la sua corsa in rete.

Gestiamo male gli ultimi palloni, concediamo una punizione che Allegri non sa se vedere o no, poi un angolo, perché l’arbitro ha deciso di fare giocare qualche minuto in più (in Italia ci si farebbe una mezz’oretta di moviola), ma vinciamo 1-0, ancora una volta, e stasera conta più di tutte le altre, perché siamo a 9 punti in tre partite, perché la qualificazione è quasi raggiunta, perché ora possiamo pensare davvero al campionato.

A partire da San Siro, contro una squadra forte, il clima che conosciamo bene, ma consapevoli che la Juventus, anche quest’anno, è tornata a fare la Juventus.