Se le cose andassero come dovrebbero andare, questo sarebbe il pezzo post Juve-Lione. Quello delle sentenze negative, se fossimo usciti, o quello della speranza per un finale di stagione eccitante, se avessimo ribaltato quel maledetto 1-0 dell’andata. Quello dei rimpianti o dell’ottimismo.

In ogni caso, sarebbe stato meglio di così. Anche un’uscita di quelle brucianti, con il consueto giorno di festa in tutta Italia, le menzioni Twitter intasate, le chat Whatsapp che esplodono, “come mai in Europa senza arbitri italiani” (dimenticando figure barbine rimediate dalle proprie squadre, con e senza arbitri italiani): mi sarei preso volentieri anche questo, che invece viene rinviato a data destinarsi e chissà se poi quella data ci sarà mai, perché oggi pensare di tornare in campo tra un mese e mezzo o due mi pare risponda più al bisogno di crederci, di dirci che a breve tutto tornerà normale, che a una precisa fotografia della situazione.

Niente Lione, niente processi, niente entusiasmi. Cosa ci rimane, allora, del calcio e del tifo per la Juventus, in questi giorni un po’ così? Oltre ai deliri dei soliti noti, che spingono per i playoff per cambiare “padrone” e ci fanno sapere con un surreale criterio statistico che, se ci fossero stati anche in passato, la Juve avrebbe una marea di scudetti in meno, ci rimangono, come quasi sempre nella vita, due cose: i fatti e le parole.

E se i fatti sono da sempre ritenuti il vero criterio su cui valutare una persona o una qualunque entità, e qui la Juve (come diverse altre società, qui non c’è distinzione!) si è fatta sentire da subito con una donazione lanciata dal presidente e poi dai giocatori su tutti i social – e la famiglia Agnelli ha fatto ancora di più, donando 10 milioni di Euro alla Protezione Civile e alla sanità piemontese –, non ho mai creduto alla tesi per la quale le parole non conterebbero, evaporerebbero così, senza lasciare tracce.

No caro amico, non sono d’accordo, diceva il poeta, a volte dire le cose giuste da parte delle persone giuste, con i toni giusti, nel momento giusto non conta meno di un fatto concreto: altro che inutili, diceva un altro poeta, le parole sono importanti.

E qui i discorsi virtuosi, evidentemente sentiti e non artificiali, che vengono da chi ha un seguito di centinaia di migliaia o addirittura milioni di persone, contano eccome. È per questo che leggo con orgoglio la testimonianza di Rugani e Matuidi, contagiati dal virus eppure da subito pronti a lanciare il messaggio giusto di questi tempi, quel misto di sobrietà e prudenza che però non deve schiacciare la speranza, sennò non ne usciremo mai.
È per questo che sono importanti le parole di Szczesny, che non è italiano e almeno al momento risulta negativo al test, eppure trova i termini giusti scrivendo che è fiero di trovarsi in Italia in un momento così complicato e, rivolgendosi ai più giovani, aggiunge che “bambini di tutto il mondo studieranno l’incredibile storia dell’Italia, impareranno a conoscere la sua arte meravigliosa, la sua architettura unica, la moda, il cibo delizioso”, mentre “da nessuna parte nei libri di storia troverai nulla sul Covid-19”.

Ed è vero che fatti e parole non aiutano a stare bene, a tenere lontano il contagio, a non farci leggere le notizie che arrivano dalle città in ginocchio, ma sono tutto quello che ci è possibile fare per dare una mano e rendere la situazione più sopportabile.

Poi arriverà il tempo del Lione, delle sentenze, delle chat Whatsapp che esplodono. Oggi è il tempo dei fatti e delle parole. E tra il contributo dato da chi studia per ore criteri inimmaginabili per togliere scudetti ai padroni e le parole misurate, sentite e speranzose di certi giocatori, passa un oceano di empatia e sensibilità. Le parole, l’ho sempre pensato anch’io, sono importanti davvero.