Il folle e geniale slalom di Douglas Costa all’ultimo secondo, con la fondamentale partecipazione di Higuain, ha avuto diversi effetti benefici.

Il primo, immediato, quell’urlo di gioia imprevisto e incontrollato, perché avevamo già cominciato a fare i calcoli sul girone, fin lì messo bene ma non totalmente al sicuro.

Il secondo, appunto, la qualificazione agli ottavi già a inizio novembre, e ci mancava da un bel po’: le grandi squadre di solito fanno così e, anche se l’altro giorno non siamo stati proprio irresistibili, è importante provare a farla diventare un’abitudine.

Terzo, oggi meno coinvolgente ma alla lunga non meno importante, il lato economico, perché ogni vittoria porta soldi ma soprattutto perché la certezza in anticipo di arrivare alle fasi a eliminazione diretta consente una maggior serenità e una programmazione migliore.

Poi, eccoci qua, perché tocca al Milan, che di storia europea ne ha come poche squadre nel continente ed è bello arrivarci così, primi qua e primi là, descritti da tutti in perenne difficoltà ma ancora imbattuti ovunque.

Juve-Milan. Facile, farsi prendere dalla nostalgia, ma soprattutto per loro.

Solo Juve, nei primi anni 80.
Quasi solo Milan, dall’arrivo di Berlusconi, con l’eccezione di un gol di Galia a San Siro che è valso una Coppa Italia in casa degli invincibili, con orgoglio e gioia difficili da descrivere, a dimostrazione di come tutto sia relativo e, in anni di magra, una Coppa Italia possa valere almeno quanto vittorie e trofei più prestigiosi in periodi più luminosi.

La partita tra le due dominatrici in Italia e non solo, dall’arrivo della triade fino a calciopoli: in quegli anni, tantissimi scudetti più una Champions vinta e tre finali perse per noi; un trionfo europeo (che ahimè ricordiamo bene) e due sconfitte per loro.

Juve-Milan voleva dire fermarsi a guardare il calcio, ammirare Buffon e Dida, Baresi e Cannavaro, Maldini e Thuram, Seedorf e Davids (quello nostro, si intende), Kakà e Zidane, Del Piero e Sheva e così via, senza dimenticare Superpippo, indiavolato da una parte e dall’altra.

Vuol dire quel pomeriggio a San Siro – ok, era Milan-Juve, poco male – con partita decisiva per lo scudetto, arbitro Collina, noi senza Ibra squalificato ma non importa, rovesciata di Alex, colpo di testa di David e tutti a casa, per uno scudetto mai così meritato eppure dimenticato dall’albo d’oro per altre questioni su cui qui non avrebbe senso soffermarci.

Il nostro scudetto più bello di sempre, quello con Andrea Agnelli, Conte e quella squadra splendida, inizialmente non considerata per il titolo eppure bellissima, capace di non perdere mai eppure, nel tragico contesto mediatico e del tifo italiano, quello è “l’anno del gol di Muntari”. Per quella strana mania tutta nostra di dimenticare il campo, tralasciare tutti gli episodi di senso contrario (tra gol annullati anche dall’altra parte, nella stessa partita, e rigori a volontà durante tutto il campionato) e spiegare tutto così, con un alibi e un episodio.
Perché negare i meriti a chi vince non è importante, ma l’unica cosa che conta.

E ora, Milan mio, come ti sei ridotto? Con proprietà e dirigenze che cambiano, allenatori nuovi ogni sei mesi, campagne acquisti ricche e incomprensibili, fuori dall’Europa e lontano da troppo tempo da quella che era casa tua.

Ma non importa neanche questo, oggi perché, se si gioca Juve-Milan, quel giorno i rossoneri la giocano con orgoglio e qualità, provandoci fino alla fine e rendendoci sempre la vita complicata. Com’è giusto che sia, come sarà anche stavolta.

Allora a domenica, caro vecchio Milan. E rivali per sempre, fieramente avversarie, ma con un sincero in bocca al lupo da un vecchio “nemico”, valido soltanto da lunedì in poi.