Un mese fa finiva il campionato: un mese, che quasi quasi sembra molto di più. Perché, da allora, è iniziato il valzer (forse can-can rende meglio) del mercato e tutto il resto è stato spazzato via, fagocitato da inarrestabili sequenze di eventi. Perché il mercato è questa roba qui, da sempre aggiungerei. Ricordi in bianco e nero del tempo che fu, fin da allora arrivava caio e partiva tizio, con i tifosi a fantasticare: tanto è gratis e i sogni non fanno male alla salute. Sono sogni, magari qualcuno si trasforma persino in realtà.

Un anno fa, oggi, si stava chiudendo la prima fase degli Europei itineranti, quella a gironi tanto per intenderci. Sì, esatto, gli Europei che avremmo vinto tra lo stupore generale, cinquantatré anni dopo l’ultimo successo nella manifestazione continentale, era il 1968 e gli azzurri batterono l’allora fortissima Jugoslavia con reti di Riva e Anastasi, nella finale bis dell’Olimpico vuoto per metà, complice il lunedì sera lavorativo. Roberto Mancini, insieme ai suoi ragazzi, è riuscito nell’impresa di sbalordire il mondo intero con una squadra che ha fatto del bel gioco il proprio biglietto da visita. Un anno fa, poco meno. Da lì una lunga serie di delusioni calcistiche, culminate con l’eliminazione dalla fase finale del Mondiale invernale qatariota, prima volta assoluta nella storia del pallone che si ferma un intero movimento sportivo per disputare l’appuntamento di maggior rilevanza del calcio, la rassegna iridata per l’appunto, durante il naturale svolgimento dei tornei nazionali. E chissà come mai, mi vien da pensare (male). Tralasciamo il discorso, sul quale sono già stati scritti editoriali da ogni dove: tutti nella stessa direzione, oltretutto. Segno che, forse forse, l’esperimento è da considerarsi come il più inutile per il gioco del pallone.

Tornando a guardare l’orticello indigeno beh, il terremoto susseguente l’esclusione dalla kermesse del prossimo novembre/dicembre non ha provocato particolari sconvolgimenti nel panorama del governo pallonaro. Tutto immutato, tutto immobile. Tanto ormai ci abbiamo fatto l’abitudine a non partecipare: e, anche nel caso delle ultime apparizioni, meglio dimenticarle in fretta e furia. Ricapitolando: Sudafrica, 2010, eliminati già nel “terribile” gruppo F, opposti a Paraguay, Slovacchia e Nuova Zelanda. Brasile, 2014, eliminati nel gruppo D, quello di Costarica, Uruguay e Inghilterra. Russia, 2018, visti in televisione. I prossimi pure. Tutto ciò ha un significato? Certo che sì. Evidentemente sì.

Il movimento calcistico italiano, al netto dell’Europeo messo in bacheca più che meritatamente, sta attraversando una crisi profonda ormai da una decina d’anni almeno, dal post mondiale vinto in terra di Germania. Ed è incredibile come non se ne rendano conto i vertici stessi del gioco più praticato nel Bel Paese. Perché, domando scusa, non posso pensare all’idea di introdurre i playoff come una sorta di medicina o intervento drastico atto a migliorare e aiutare la crescita di nuovi talenti. Questo manca, una generazione in grado di sostituire i Totti, i Del Piero, i Baggio e aggiungete Voi chi meglio credete. No, non sono i playoff. E neanche il calendario asimmetrico. C’è da darsi da fare sui settori giovanili, ci sono da ricostruire le fondamenta del pallone, c’è da sviluppare, investire, pazientare e raccogliere i frutti. Altrimenti potremo vivere di episodi come quello dell’estate passata: ma continueremo a parlare di episodi, continueremo a nascondere la polvere sotto il tappeto fino alla prossima volta, sperando che quel tappeto non lo alzi mai nessuno.

Per chiosare riporto un dato che già molti hanno sottolineato: nella passata stagione la Serie A ha perduto il 29,9% di ascolti, mica pizza e fichi. Ma sì, dai, meglio buttarsi nel mercato e continuare a sognare. Almeno quello non fa male a nessuno.

Alla prossima.