In questi interminabili giorni di quarantena, segnati dall’echeggiare dei notiziari che ci aggiornano tempestivamente sulla situazione d’emergenza che stiamo vivendo, ho cominciato ad avvertire nitidamente l’assenza di uno dei miei momenti di svago preferiti. Avete presente? Sono quei momenti in cui il cervello viene resettato completamente, in cui non si pensa ad altro perché l’attenzione è irrimediabilmente catturata da quel rettangolo verde in cui scorrazzano ventidue giocatori: una partita di pallone! Ecco, l’ho detto. Il calcio è ormai fermo da un mese ed io ho iniziato ufficialmente a sentirne nostalgia.

Mi mancano le emozioni più disparate che questo sport suscita: gli applausi, i cori scanditi da tutto lo stadio, le esultanze sfrenate per un goal, lo spettacolo cromatico di sciarpe e vessilli che sventolano tra braccia tese nell’aria. Ma anche l’adrenalina del “pre” e del “post” partita, i primi piani che si focalizzano sulla tensione di chi sta per tirare un rigore. Non è come quando finisce il campionato. Proprio no. Non c’è l’estate, permeata da mille distrazioni, a colmare l’assenza di risultati e classifiche; non c’è il calciomercato a tenere banco, alimentando l’interesse fino ad agosto, quando tutto ricomincia. Lo sport si è fermato e, come tutti noi, aspetta di poter tornare. Così ieri, mentre ero indaffarata in qualche faccenda di casa, tra una cosa e l’altra mi ritrovo tra le mani la biografia di Francesco Totti.

Non ho saputo resistere (a dire il vero, non ci ho neppure provato) e, proprio per essere percorsa di nuovo dal brivido di certi racconti, mi sono tuffata a capofitto nella lettura per la seconda (o terza?) volta. “Un capitano” è un libro – ma potrei azzardare a definirlo una “bibbia romanista” – di 503 pagine e due centimetri di spessore, scritto insieme al bravissimo Paolo Condò, la cui copertina in bianco e nero raffigura il volto del capitano con lo sguardo fisso su di noi. Poco importa quale squadra si tifi, il libro di Francesco Totti è storia del calcio italiano, mondiale, e per questo motivo non può assolutamente mancare nella nostra libreria di appassionati calciofili.

Persino io sono stata citata tra quelle pagine, chi lo avrebbe mai detto!
Quando parlo di Francesco Totti mi riferisco a colui il quale è stato, ma tale lo considero anche adesso che ha appeso gli scarpini, il mio primo capitano. Uno dei motivi, se non il motivo principale, per tifare la Roma: anche quando si perdeva, infatti, l’amarezza veniva mitigata sapendo che ad indossare la casacca giallorossa c’era lui. Quando il 28 marzo 1993, durante Brescia-Roma, il tecnico Vujadin Boskov fece esordire in Serie A quel sedicenne dalla chioma dorata, io dovevo ancora compiere 7 anni. Ero solo una bimba, insomma, che di lì a poco avrebbe iniziato a tifare seriamente quei colori e quella maglia numero 10, forse senza sapere davvero perché.

È andata così e basta. Ho scelto la Roma, la squadra della mia città, ma il trasporto per questo sport – diventato ora, sotto alcuni aspetti, un lavoro e anche parte della mia vita – scaturisce probabilmente dalla presenza di quel campione straordinario, dalle prestazioni che è riuscito a sfoderare per tanto tempo, dalla fierezza che ha elargito a noi tifosi “innamorati”, dal senso di appartenenza che ha saputo professare e infondere in ciascuna delle quasi 800 partite in giallorosso. Posso dire che Totti è stato, ed è ancora oggi, insieme a Daniele De Rossi, il simbolo inossidabile della mia fede calcistica: un vanto che noi romanisti ci siamo cuciti addosso ogni domenica e nel cuore per il resto della settimana.

Non amo pensare al giorno in cui si è celebrato il suo addio, perché non è così che lo avevo immaginato, tant’è che ho deliberatamente “schivato” tutte le repliche di quell’infausto pomeriggio che Sky ha programmato in questo stop al calcio giocato. Forse non l’ho mai superato davvero il suo addio. Ero consapevole che quel momento sarebbe arrivato, ma ugualmente mi persuadevo che non lo avrei mai vissuto. Ciò non toglie che da fedelissima e malinconica “tottiana”, così chiamano i suoi sostenitori, io continui a seguirne il percorso, prestando sempre attenzione a ciò che dice e che fa: ”La Roma è la mia seconda pelle e questo non me lo toglierà nessuno”, ha ribadito qualche giorno fa in una conversazione “social” in diretta con il suo compagno di avventure giallorosse Candela, improvvisatosi giornalista per l’occasione.

Non nego di essermi emozionata nel sentirlo pronunciare quelle parole. Del resto, Totti di brividi ne ha sempre dispensati tanti: ai propri tifosi, certo, ma anche agli avversari.
Ricordo di averne provati di fortissimi quando si giocava a San Siro contro l’Inter, il 26 ottobre 2005, e il capitano beffò Julio Cesar con un gol incredibile, che da lì in poi venne ribattezzato “cucchiaio“, per quel movimento così peculiare del suo piede al momento del tiro. Io ero quasi ventenne e assistetti a quella prodezza in un pub con amici. Sulla panchina dell’Inter, all’epoca, sedeva Roberto Mancini che, lo ricordo bene, non poté fare a meno di applaudire.

Emozioni altrettanto dirompenti, come tutti gli italiani, le provai ai Mondiali del 2006, quando l’Italia batté di misura l’Australia grazie ad un suo rigore allo scadere del terzo minuto di recupero degli ottavi di finale. Giocavamo a Kaiserslautern, in Germania: conquistammo la vittoria quando nessuno ci sperava più e i supplementari ormai incombevano come una tortura sugli azzurri svuotati di energie, in dieci per quasi tutto il secondo tempo. Invece Fabio Grosso si guadagnò un rigore, trasformato poi proprio da Francesco Totti, che con quel tiro dagli undici metri si caricò sulle spalle, da fuoriclasse, tutto il Paese. E chi se lo scorda?

Potrei parlare, altrimenti, dei tanti derby al cardiopalmo o di tutto ciò che mi ricorda quel grande amore che c’era tra lui, la Roma e noi: le sue dediche ai tifosi e agli amori della sua vita, la fascia bianca tra i capelli e quella personalizzata che portava sul braccio, il pollice in bocca, l’infortunio, quella corsa a prendere la telecamera o l’altra, più recente, per afferrare il cellulare e scattare il selfie dei selfie. Oppure potrei continuare a intrattenervi raccontando delle copiose lacrime che ho versato ad ogni suo strabiliante goal. La verità è che i momenti di follia pura che ho provato, capeggiati da un condottiero del suo rango, sono stati tanti, troppi, nei 25 anni in cui l’ho visto giocare e li tengo tutti conservati nella mente tra i miei ricordi preferiti. Potrei stare qui a parlarvene per ore e ore. Ma, probabilmente, non mi basterebbe un altro mese di isolamento.