Mancano circa trenta secondi alla fine del primo tempo.
Siamo 0-0 e fin lì le due squadre hanno prodotto poche occasioni: partita non esaltante, ancora peggio il finto pubblico rosso a bordo campo.
Ripartiamo. Siamo a centrocampo. Fraseggiamo, passaggio al compagno vicino.
Venti secondi. Passaggio in orizzontale allargando sulla fascia. Pallone che torna al compagno più centrale.
Dieci secondi. Comincio a gridare. Fate qualcosa! Tra poco fischia! Pallone in orizzontale.
Fischia. È finito il primo tempo, sto ancora gridando qualcosa e sono convinto che poche azioni riassumano meglio i problemi della Juve di questi tempi, ma anche di questi mesi.

Leviamoci subito il dente delle “attenuanti”, così possiamo riprendere da quell’azione: i complimenti al Napoli sono d’obbligo (ha messo in difficoltà anche il Barcellona), veniamo tutti da tre mesi stranianti e questo sembra davvero calcio di luglio, la Coppa Italia mi interessa il giusto.

Ora possiamo tornare a noi: prendo quei trenta secondi di palleggi senza pensare al cronometro, senza un guizzo, senza un’idea alternativa, senza metterci la testa, come un simbolo delle difficoltà della squadra di Sarri. Che cerca di prendere possesso del campo, talvolta ci riesce, ti avvolge – molto più in quella mezz’ora contro il Milan che nella finale – ma se si trova di fronte una retroguardia coperta, ben disposta in campo, con gli spazi chiusi, non conosce altri spartiti e raramente con i cambi – 3 o 5 che siano – riesce a variare lo schema di gara.
Anche se mancano 30 secondi, venti, dieci, fine primo tempo, mentre io grido davanti alla tv.

Quell’azione è un simbolo, ma stavolta c’è molto altro: un avversario molto più pericoloso di te, gli errori grossolani dal punto di vista tecnico, sbagli incomprensibili anche a livello di concentrazione, perfino nel recupero, quando ormai manca poco e serve solo portare a casa almeno i rigori.

E poi eccolo, l’altro difetto di cui abbiamo già detto dopo la sfida contro il Milan: la Juve, negli anni e nei decenni, ci ha abituato a distruggere l’avversario in difficoltà, a ingigantirne le debolezze, a trarre dagli episodi positivi energie impensabili, a reagire sempre, #finoallafine. Questa no.
Se va sotto a Lione in una partita fondamentale contro un avversario abbordabile, giochicchia, attacca, ma produce poco o nulla.
Se parte fortissima contro il Milan e i rossoneri rimangono in dieci, non infierisce ma si ferma, rallenta, gestisce. Non prende gol ma non produce più nulla.
Se in finale gli avversari prendono due pali e creano più di noi, non siamo capaci di cogliere i segnali del destino: proseguiamo senza un guizzo, un cambio di passo, una sostituzione che sia mai foriera di novità, vivacità, imprevedibilità.

Ora, ricontestualizziamo ancora una volta: questo è calcio di luglio, non è la partita con il Napoli a produrre apprensione. È piuttosto il fatto che alcune di queste caratteristiche paiono rimaste inalterate, come se la sosta non ci fosse mai stata, come se questi mesi non fossero serviti almeno a livello psicologico a comprendere che serve uno scatto, rispetto a una prima parte di stagione colma di alti (le sfide all’Inter, il girone di Champions) ma anche dei tanti bassi che abbiamo provato a riassumere fino a ora.

E sia chiaro, io sono pronto da tempo (con Conte, con Allegri, ora con Sarri) anche a una stagione senza vittorie, non si può pensare di vincere tutti gli anni solo perché siamo i più forti o i più ricchi: subentrano la fame, gli stimoli, i cicli che si aprono e si chiudono. E chissà quest’anno come andrà, visto che – oltre al ritorno contro il Lione ancora da disputare – siamo primi e non quinti in classifica, quindi le valutazioni di oggi contano meno di zero; già da Bologna siamo pronti a ripartire con speranza, fiducia e tutto il nostro personale sostegno a tecnico e squadra.
Ma dobbiamo essere diversi, far girare più rapidamente il pallone, trovare soluzioni alternative di fronte a squadre chiuse che lasciano pochi spazi.
Almeno, promettetemelo, se mancano trenta secondi alla fine e io sto iniziando a gridare.