L’Inter che torna sul tetto d’Italia dopo 11 anni (ultima magica fermata quella del Triplete nel 2010) ha innegabilmente un nome scolpito sulla pelle, quello di Antonio Conte. Perché lui, ancora una volta, si dimostra l’allenatore delle imprese sulle lunghe distanze, in nome del riscatto dopo anni bui. Il trasformista. Era accaduto alla Juve, dopo anni di oblio. Si era ripetuto in casa Chelsea, con un’impresa mozzafiato senza il minimo conforto di qualsiasi bookmaker, anche il più fantasioso. E quando gli hanno dato l’Inter, Conte sapeva che avrebbe dovuto scalare una mezza montagna, lassù stava proprio la Juve, all’interno di nove scudetti di fila e con la volontà ferrea di centrare la Decima.

Nulla da fare: si è messo di traverso, ha seminato al primo anno (e sotto questo punto di vista non ci sono obiezioni da fare) e ha perfezionato all’interno della stagione successiva, quella che sta per concludersi. Perché lui sa come si fa e lo fa: uno strizzacervelli, con i suoi ragazzi che si butterebbero nel fuoco pur di accontentarlo. La storia dice che due anni consecutivi con Conte sono già un bel fardello, lo devi seguire anche nei dettagli, il terzo diventa quasi ossessione, l’eventuale quarto una sopportazione. Al punto che spesso è don Antonio a tagliare la corda prima, pronto per nuove esperienze. Ma nessun dubbio sul particolare fatto che lui incida più del 100 per cento. E i risultati sono dalla sua parte, una sentenza meglio della Cassazione. Che Conte rompa, andando oltre i limiti a velocità supersonica, è stato dimostrato dal vertice varesino della scorsa estate. Si presentò da Zhang con l’idea non tanto peregrina di andarsene e di trovare una soluzione all’interno di un contratto onerosissimo (24 milioni netti per altre due stagioni, 48 lordi) e che diversamente avrebbe potuto avere conseguenze sanguinose. Trovarono una soluzione, e quindi un accordo, gli fecero il mercato possibile aderendo alle sue richieste (Kolarov e Vidal in testa), sarebbe stato delittuoso interrompere il discorso dopo una sola stagione senza titoli ma di laboriosa semina.

Questo è lo scudetto di Conte per la crescita esponenziale di un gruppo, per la valorizzazione dei vari Bastoni e Barella, per la straordinaria competitività di Lukaku voluto fortemente (e senza badare a spese), per la consacrazione di Lautaro, per il lavoro certosino su Hakimi difensore – non soltanto scheggia inesauribile sulla fascia destra – e potremmo continuare per altre 12 ore. E’ stato anche lo scudetto di Christian Eriksen, il colpo che Antonio non avrebbe voluto e avrebbe preferito anticipare lo sbarco di Vidal a Milano, al punto che le incomprensioni e i mal di pancia portarono a un’esclusione quasi sistematica del danese che aveva l’unico difetto di non aver avuto un ruolo neanche secondario nella lista della spesa presentata dall’allenatore. Ma l’intelligenza e la saggezza prevalgono, a fuoco lento, anche sui caratteri più ribelli: Conte aveva garantito che non ci sarebbe stato spazio per il folletto danese nel centrocampo a cinque, strada facendo si è convertito, si è pentito, ha aperto e ha raccolto. E’ un merito. Non è troppo casuale che i gol scudetto abbiano avuto anche il timbro di Eriksen: la realtà dice che il ragazzo ha spesso giocato da titolare, incidendo. E quando è entrato ha stupito lo stesso, al punto che la vera benedizione è stata il mercato di gennaio quando l’ex Tottenham aveva la valigia pronta. Invece, in assenza di offerte convincenti e in grado di evitare qualsiasi ipotesi di minusvalenza rispetto ai 27,5 milioni in bilancio, è rimasto. Una fatale e fortunatissima coincidenza.

Cosa manca adesso a Conte per il definitivo balzo a dismisura dell’asticella? La consacrazione europea. Anche in questi giorni strafelici, con la giusta e strameritata certificazione dei suoi meriti, non possono passare in cavalleria le due eliminazioni consecutive dalle fasi a gironi di Champions, contro avversari non scomodi. E nella seconda circostanza fu addirittura sbarrato l’accesso a qualsiasi tipo di frontiera, persino quella secondaria che avrebbe portato in Europa League. Ora Conte si toglie i sassolini, si chiamano macigni, lo fa anche per oscurare quelle maledette campagne oltre confine che gli bruciano da morire. E che ricordano le sue esperienze con la Juve, ricche di delusioni, anche quando ci sarebbe stata l’opportunità di giocare una finale di Europa League proprio a Torino. Lo step si può fare, serve un’Inter almeno dignitosa extracampionato: non diciamo subito vincente, ci sono tre o quattro potenze oggi davanti anni luce, ma almeno in grado di superare la prima fase e di arrivare ai quarti. Ecco perché servirà un bel tavolo di lavoro, confidando nel frattempo di risolvere tutti i problemi societari, con il fidato Marotta accanto e con lo stesso Ausilio che non ha bisogno di messaggi trasversali. La compattezza del gruppo conta moltissimo in qualsiasi strategia lavorativa, anche il rispetto verso la proprietà. Meglio ancora: qualsiasi messaggio velenoso è giusto che resti nelle segrete stanze, non debordando all’esterno e non creando scandali mediatici.

È sacrosanto che Conte si goda lo scudetto, il quinto della sua carriera, frutto del suo eccellente lavoro. E che poi individui le pedine necessarie per rendere l’Inter ancor più competitiva. Il confronto dovrà essere chiaro, sincero, trasparente, proficuo. L’ultimo step, appunto, ma fondamentale per evitare che la Champions diventi una nemica per sempre.