La notte di Reggio Emilia sarà indimenticabile, la vittoria in casa del Sassuolo ha avuto il potere di ribaltare il mondo in casa Milan. Non soltanto, ovviamente, per l’ennesimo trionfo post lockdown, ma anche e soprattutto per la (ri)scalata al potere del signor Stefano Pioli. Doveva andar via, doveva lasciare al prof Rangnick. Gli avevano preparato il bigliettino di addio, doveva essere affrancato e spedito. Invece, Pioli ha dato una bella spallata al suo rivale ormai sicuro di fargli le scarpe, gli ha intimato “resta lì dove sei, il Milan è mio e non me lo tocca più nessuno”. Gli hanno fatto firmare un contratto fino al 2022, con tanti saluti a qualsiasi dubbio o perplessità. Soprattutto rivisitando, come se fosse una totale inversione sull’autostrada, quanto era stato concordato e pattuito con il santone deciso a lasciare la Germania per unirsi in matrimonio con la sua nuova “bella” rossonera. Invece, il ribaltone all’improvviso: non sarà la prima né l’ultima volta che qualcosa va di traverso al momento del nero su bianco. Ma questo è uno sbocco clamoroso, alla luce di quanto era stato pattuito e concordato da tempo.

Premessa: Rangnick è un accentratore, quindi se fosse arrivato al Milan avrebbe portato un allenatore di sua fiducia. Ma possibilmente avrebbe gestito la pratica da solo, andando in panchina e facendo il mercato. Insomma, un manager totale, uno di quelli che era piaciuto alla proprietà per una rifondazione totale e per non sperperare ulteriore cash. C’erano stati incontri, promesse, carezze. E non sarebbe stato un problema l’accordo con la Red Bull, al punto che il Milan si era caricato l’eventuale possibilità di pagare una penale. Insomma, filavano talmente d’amore e d’accordo che Gazidis (uomo della proprietà) si era caricato sulle spalle un bel po’ di critiche e anche di insulti per una gestione non certo perfetta della vicenda. Paolo Maldini aveva subito chiuso a Rangnick, bollandolo come un allenatore non da Milan. Zorro Boban aveva lasciato per Rangnick, essendoti sentito scavalcato da un amministratore delegato che aveva ritenuto opportuno non avvertirlo dell’esistenza di una trattativa molto bene avviata. Una promessa di matrimonio, appunto. Insomma, il signor Ralf aveva fatto tanti di quei “danni” da risultare indigesto a quasi tutti, ancor prima di insediarsi dalle parti di Milanello. Ma lui non aveva alcun tipo di colpa, se non quella di possedere le caratteristiche necessarie (fondamentali) per l’ennesima rifondazione Milan. Aveva già avviato qualche contatto, per esempio con il suo pupillo Szoboszlai, il centrocampista golden boy ritenuto perfetto per un nuovo ciclo. Al punto che gli aveva sussurrato qualcosa del genere “resta lì, aspettami: quando mi insedierò, il tuo sarà il primo nome che farò”. Aveva messo nel mirino Schick, insomma si stava attivando – almeno come idee – prima che il mondo cambiasse colori e comprendesse una retromarcia clamorosa, materializzatasi la sera di martedì 21 luglio.

Nel frattempo, quel glaciale di Pioli stava lavorando per portare il Milan in carrozza alle ultime quattro partite di campionato. Dopo Reggio Emilia sono tre, ennesima vittoria e qualificazione all’Europa League (almeno per i preliminari) centrata, doveva essere un regalo d’addio. Con una dedica sopra: “Avete visto il vostro amico Stefano cos’è capace di fare, malgrado mille problemi e una programmazione non troppo all’altezza?”. Quel regalo d’addio si è trasformato in una ripartenza di Pioli, nella spallata a Rangnick, nel Milan da riprendersi completamente dopo che qualcuno aveva cercato di portarglielo via. “Sono felice, molto felice, lunedì avevo capito che…”. Pioli aveva capito che il suo mondo sarebbe stato ancora rossonero, che il lavoro post Covid-19 era stato qualcosa di spettacolare, che la società aveva apprezzato e soprattutto accettato di rimettere in discussione quanto era stato stabilito quasi nei dettagli. Un pentimento che va apprezzato, un pentimento che contiene logica perché non c’è cosa migliore di un tuo dipendente che lavora e bene, pur sapendo di essere ai titoli di coda. Semplicemente perché hanno scelto un altro, ma poi pensi e pensi ancora, mica è detto che l’altro sia più bravo di chi hai. Infatti, cambi idea, non procedi più al ribaltone. Perché una cosa deve essere chiara: non ci sarebbero stati margini per una convivenza Pioli-Rangnick, al massimo sarebbe durata qualche settimana per incompatibilità. Così diventa bello, bellissimo, che chi doveva andar via dalla porta di servizio possa rientrare dall’ingresso principale con tanto di codazzo al seguito. Entusiasmante.

Il Milan dell’ultimo periodo ha dimostrato di avere uno zoccolo duro importante: Kessie è rinato, in coppia con Bennacer è un portento; davanti si sono svegliati tutti o quasi tutti, a partire da Rebic, per merito di Ibrahimovic. Già, il tanto discusso Zlatan che ha avuto l’umiltà di firmare un contratto di sei mesi quando un altro se ne sarebbe rimasto a casa, magari offeso per un trattamento poco rispettoso. Lo stesso Ibra che aveva più volte criticato il club, magari immaginando o intuendo che con Rangnick sarebbe stato automatico preparare le valigie e tornare in Svezia con un pacco di rimpianti. Invece, anche qui il destino: la doppietta di Reggio Emilia, sulla pelle del Sassuolo, proprio nella notte della rottura con Rangnick e della conferma ufficiale di Pioli. Anche questo un film, una fiction, oppure decidete voi cosa: Ibra che ne ha quasi 39 e che sarebbe un bambino fin troppo felice se dopo questa volta decidessero di trattenere anche lui. Lui che non vede l’ora di indossare ancora il rossonero, di rimettersi in discussione, di arrabbiarsi per una sostituzione e di snocciolare i numeri con frasi a effetto. “Da quando sono arrivato, siamo secondi o terzi”. Cose che aveva spiegato qualche giorno primo in modo ancor più roboante: “Se fossi arrivato dall’inizio, avremmo vinto lo scudetto” che poi sarebbe un implicito “se restassi qui, lo vinceremmo l’anno prossimo”. Insomma, Pioli e Zlatan sembrano fatti apposta per lavorare in coppia. E questo Milan di (quasi) fine luglio è esattamente l’opposto rispetto a quello che era stato costruito durante mille e ipoteticamente costruttivi confronti con il signor Ralf. Invece, il responsabile sport della Red Bull resterà esattamente dov’era. Ripassi la prossima volta, stavolta non abbiamo bisogno di lei: puntiamo su Stefanuccio nostro, il Pioli che ci aveva messo qualche partita di troppo per capire il Milan (umilianti le cinque bastonate di Bergamo a ridosso di Natale), ma che poi aveva fatto quadrare i conti come l’allenatore più ispirato sulla faccia della terra.

Adesso Pioli e la proprietà devono farsi una promessa: capirsi nelle incomprensioni, altrimenti quanto fatto poche ore fa non avrebbe senso. Un mercato ponderato e coerente, intanto, senza contraddizioni e con una linea che sia quella di tutti “non della proprietà o dell’allenatore”. Sarebbe una bella mossa di coerenza. Il Milan ha fatto cose buone e meno buone nelle strategie della scorsa estate: le operazioni Theo e Bennacer meritano applausi a scena aperta. Adesso sarebbe il caso di farle buonissime, con una condivisione totale. Perché il manifesto con su scritto “Pioli fino al 2022” sta tappezzando tutti i cuori rossoneri, ma nello stesso tempo contiene un’implicita ammissione, ovvero che non si può assolutamente bucare il prossimo passaggio alla qualificazione Champions. Il Milan ci sta fuori da tanti, troppi, anni e sono schiaffi che bruciano. La concorrenza sarà sempre spietata e allertata perché, facciamo un esempio, il Napoli con Gattuso tornerà più che mai competitivo. Ma Pioli, che rientra dalla porta principale, e il Milan si sono fatti una promessa. E devono assolutamente mantenerla.