È forse il goal per eccellenza dell’inimitabile avventura di Diego Armando Maradona al Napoli. La punizione alla Juventus, nel campionato ’85-’86, una sfida alle leggi della fisica e della logica, un’icona del calcio mondiale.

È curioso che quel goal non abbia deciso nulla: non uno scudetto, non un sorpasso, non un punto fermo in classifica. In realtà, fece molto di più di tutto questo. Fu una liberazione. Dopo decenni di sogni, perlopiù frustrati, cadute all’ultimo miglio, cocenti delusioni per mano di vecchi amici e sanguinosi tradimenti sportivi, quel pomeriggio anche il più scettico e cinico fra i tifosi del Napoli ebbe la netta percezione che il futuro fosse arrivato. Stava cambiando tutto, lungo quella parabola impossibile. Beffarda e malandrina, come solo il suo autore poteva permettersi…

Un uomo senza regole, che non fossero quelle imposte da lui stesso al mondo che lo circondava. Quanto più gli potessero dire: “non si può fare“, tanto più lui lo faceva. In campo e fuori. Senza limiti, oltre il giudizio, cercando una sfida sempre più grande. Quel goal non si poteva fare. Non era umanamente possibile neppure immaginare di scavalcare una barriera messa, a voler essere ottimisti, a quattro metri. Diego era, dunque, a undici, dodici dalla linea di porta. Secondo logica, non si poteva neanche provare. Chiunque avrebbe scelto la soluzione di potenza, un puro atto di forza, alla ricerca magari di un tocco fortunato, una deviazione propizia. Lui no. Maradona voleva firmare, in splendida solitudine il pomeriggio della svolta. Voleva che il momento fosse suo, non condiviso con altri, in una recita maestosa e impossibile. Un monologo, come è stata gran parte della sua vita, disastri e rovesci compresi.

Io c’ero quel giorno di novembre, non prendevo l’acqua che veniva giù a scrosci, perché vidi la partita dalla tribuna laterale inferiore, al coperto. Vedere è una parola grossa: da quel settore, allo stadio San Paolo, ieri come oggi la partita non la si vede, la si immagina. La si sente. Con una eccezione: i palloni alti, quelli li vedi.

Per me, quel goal è rimasto sempre e solo una parabola. Vidi spuntare un punto bianco, il pallone, da una massa indistinta. Erano le maglie azzurre e bianconere, egualmente inzaccherate dal campo pesante. Quel puntino bianco luminoso lo vidi spuntare dal nulla e ripiombare nel nulla, che poté Stefano Tacconi, il portiere dei futuri campioni d’Italia. Solo un attimo, un flash, eppure lunghissimo. 35 anni dopo lo vedo ancora, lo sento ancora, come il rombo disumano che ne seguì. Un urlo belluino e collettivo, come non se ne sentono più negli stadi di oggi, immensamente meno affollati e rispettosi di regole, che allora neppure sospettavamo potessero esistere.
Di quel giorno, io non ricordo altro, solo un puntino bianco, una parabola, un boato.

Immagino di essere andato a casa felice, nei miei onnipotenti quindici anni. Posso solo immaginarlo, perché il tempo si porta via quasi tutto, tranne i rari tocchi di magia a cui abbiamo la fortuna di poter assistere qualche volta nella vita.

Quella fu una magia, il trucco perfetto dell’Houdini del calcio. Un uomo che vinceva con la testa, molto prima di entrare in campo. Diego voleva ed ebbe proprio questo: un goal per sempre.