Ci sono allenatori che nella storia dell’Inter, dopo essere usciti di scena, hanno raggiunto in pochi anni l’Olimpo della reputazione, il traguardo della riconoscenza di un pubblico vasto e composito, unito nella canonizzazione sportiva di un essere sempre meno umano e sempre più benedetto.

Sono nato in un’epoca in cui Helenio Herrera era considerato una divinità e la grandezza dell’Inter quasi una sua esclusiva. Per questo sono rimasto stupito nel ritrovare un documento video dell’Istituto Luce che mostrava l’inizio della stagione 1963/64, pochi mesi dopo il primo scudetto del “mago” e con Angelo Moratti al suo settimo anno di presidenza. Interviste prima della gara d’esordio in campionato contro il Modena e alcuni tifosi che allo stadio dicono la loro su Herrera. Il primo lo massacra dandogli del sopravvalutato, il secondo è scettico, il terzo lo salva dicendo “mah sì dai è bravo”, come fosse un contentino perché c’è la televisione.

Anni dopo quegli stessi tifosi considereranno il tecnico spagnolo come un grande allenatore, non tanto o non solo per gli altri grandi successi, ma perché non si riesce mai a vivere il presente con equilibrio.

Ha ricevuto lo stesso trattamento Mourinho, contestato e ridotto ad allenatore sovrastimato da molti tifosi interisti, due mesi prima di vincere il triplete, dopo la sconfitta (immeritata) in casa della Roma.
In tutti questi anni ho sentito critiche senza riserve, verso tanti, forse tutti gli allenatori dell’Inter per il gioco scadente, l’incapacità di fare le formazioni, di provvedere alle sostituzioni e di aver causato l’eventuale disastro stagionale.
Per questo diventa complicato capire chi veramente ha fatto bene con i mezzi che aveva e chi invece ha fatto un lavoro non all’altezza.

Il lavoro di un tecnico, uno bravo s’intende, è invece direttamente proporzionale a quello societario e alle sue dinamiche interne. Da giovanissimo tifoso sono nato nell’era di Bersellini, convinto che un allenatore fosse per sempre, ho guardato con sospetto a Rino Marchesi il taciturno, tifato invano per uno sfortunato Gigi Radice in una stagione disgraziata.

Con tutto quello che è successo ho stimato il gioco di Castagner, meno la mancanza di fermezza nei momenti decisivi. Lui era un tecnico spregiudicato e coraggioso nella sua proposta. Mi sono esaltato per Trapattoni e il suo linguaggio universale, unito alla capacità e all’umanità. Mi sono divertito e arrabbiato con Orrico, che avrebbe dovuto essere supportato meglio. Era come Maurizio Sarri, solo molto prima del tempo, in una struttura societaria che stava cercando di capire come metabolizzarlo, senza successo.
Ho ammirato Bagnoli, con quell’aria cinica e risoluta, da milanese che conosceva fin troppo bene l’aria della sua città.

Ho amato Gigi Simoni e non solo io, non ho capito Roy Hodgson, intestardito in alcune sue convinzioni, nonostante la capacità in panchina. Stesso ragionamento per Lippi, anche se il personaggio era all’opposto: grandi idee, una mentalità vincente tradotte in una lingua sbagliata e un’arroganza di cui non si è mai pentito.

Resto dell’idea che Mancini sia stato invece un allenatore dal talento straordinario, arrivato da poco alla maturità definitiva. Ha diviso gli interisti, nonostante avesse fatto un lavoro straordinario in due momenti storici complicatissimi.
Dopo Mourinho, di cui magari parleremo in un’altra occasione, il più sfortunato e talentuoso resta Stramaccioni. Catapultato in una realtà in quel momento più grande di lui, gli è stata data la macchina, con due spiegazioni veloci e, mentre lui faceva l’impossibile per crescere in fretta, la società svaniva sotto di lui e la squadra perdeva la cifra record di 12 giocatori per infortunio. Spalletti un bravissimo tecnico ma non sapremo forse mai cosa avrebbe potuto fare con una squadra realmente forte.

E ora Conte, che stiamo guardando con simultanea stima e la giusta dose di rispetto. Quello che ho imparato però è che gli allenatori rimasti nel tempo, a prescindere dai risultati, sono quelli risultati più autentici e umani. A Conte, per vocazione, spetta il compito più difficile di restare nella storia per i risultati.