Il finale non è dei migliori: anzi, per dirla tutta, il peggiore che uno sceneggiatore avrebbe mai potuto scrivere, degno di un drammone cinematografico anni ’50. L’Atalanta Bergamasca Calcio sceglie il modo più doloroso per salutare questa stagione terribile, figlia di un virus maledetto che nella città orobica ha seminato morte e paura. All’interno della “Catedral” del calcio portoghese, lo stadio da Luz di Lisbona, casa del Benfica, 65.000 posti vuoti, i neroblù segnano, combattono, soffrono, arrivano a quel maledetto centimetro dal fine partita e vengono puniti più da una pallina da flipper che non da un gol nato grazie a giocate straordinarie dei francesi o dei loro cavalieri, Mbappé su tutti, Neymar un gradino sotto, Icardi nemmeno pervenuto fin quando è stato in campo, prestazione incolore e gravemente insufficiente la sua. Il raddoppio tre minuti dopo è frutto del crollo psicologico dei ragazzi di Gasperini, ormai svuotati di ogni tipo di energia.

Ma non dobbiamo soffermarci sulla sfida di ieri: sarebbe riduttivo per quanto gli orobici hanno mostrato nel corso dell’annata sportiva. Anche perché, diciamocelo francamente, la Dea vista in Portogallo non è quel gruppo ammirato più e più volte sui campi di gioco nostrani. Mi spiego meglio: ho avuto il piacere di seguire spesso l’Atalanta e dei neroblù mi sono rimaste impresse partite spaventose per intensità, corsa, tattica e tecnica. Il secondo tempo al Meazza contro l’Inter, il pesante cappotto rifilato al Milan, la fantastica partita di Torino contro la Juventus e tante altre: ecco, ieri quella intensità di cui sopra mi è sembrata pian piano venire meno, sostituita forse dal peso specifico della sfida ai campioni di Francia.

La Dea ci ha divertiti, calcisticamente parlando. Gasperini magari ieri sera ha sbagliato un paio di cambi e di letture in corso d’opera, ma stiamo davvero cavillando perché è riuscito a forgiare un gruppo coeso, di carattere, fisicamente impressionante, in cui spicca su tutti la luce di un ragazzo tanto umile quanto forte, fortissimo: Alejandro Gomez, trentaduenne di belle speranze, conosciuto da tutti come “Papu”, soprannome coniato dalla mamma la quale, quand’era bimbo, amava chiamarlo Papuchi – non significa nulla, è un semplice vezzeggiativo – dal quale poi, per l’appunto, Papu. Ma Gasp ha regalato al calcio anche i Duvan Zapata, impressionante il rendimento del colombiano ormai correttamente inserito nel novero delle grandi punte che animano il campionato italiano, i Gosens, alzi la mano chi conosceva il ragazzone tedesco con cittadinanza olandese, i Malinovskyi, arrivato dal Belgio in punta di piedi e scopertosi formidabile fromboliere da fuori o i Pasalic, abbandonato dal Milan perché meglio disfarsene e che a Bergamo ha riscoperto la gioia del pallone.

Potremmo andare avanti pagine raccontando la rosa orobica che costa, a livello di monte ingaggi, come il solo Neymar incontrato ieri sera. Insomma, c’è poco da dire, l’Atalanta ha restituito piacevolezza al calcio: i risultati della Dea non sono mai stati casuali, piuttosto sempre passati attraverso un’idea di gioco, un concetto di schemi, cosa fare in campo e cosa no. Raramente i bergamaschi hanno vinto per l’invenzione di un singolo, quasi sempre invece sono arrivati al successo attraverso trame di gioco veloci, ficcanti, piacevoli alla vista. E non è un discorso legato al quanto corrono: corrono, indubbiamente, ma corrono in maniera intelligente, sapendo sempre o quasi cosa fare e come farlo. Tutto ciò è merito dei calciatori, sono loro a scendere sul terreno di gioco, ma anche e soprattutto di chi li guida dalla panchina e ha la capacità di convincerli a seguire determinate idee.

Sì, vero, d’accordo, tutto è terminato sul più bello, per un rimpallo stile flipper che ha cambiato il corso degli eventi. Ma il “miracolo” Atalanta, la favola della squadra di provincia, dal mio punto di vista è terminato: la Dea non è una favola, la Dea da oggi, e non solo, è una realtà del calcio italiano con cui tutti dovranno fare i conti. Complimenti, comunque sia andata è stato un grande successo.