Alla fine del primo tempo di Fiorentina-Inter si viaggiava tra lo sconcerto per l’andamento della partita, la speranza che i viola calassero l’intensità e la fiducia che l’Inter crescesse. L’energia della squadra di Italiano sembrava tale da non rendere comunque così immaginabile un crollo o anche solo un calo consistente e l’Inter dalla panchina non sembrava avere soluzioni tali da poter sovvertire l’andamento.

Il secondo tempo ha preso la direzione migliore che ci si potesse augurare e non c’è stato nemmeno bisogno di ricorrere ad un salvatore della patria, perché i “risolutori” erano già in campo, anche se erano pronti ad uscire.
Darmian e Dzeko hanno trovato i gol della rimonta e portato Inzaghi a fare una scelta diversa. Le sostituzioni sono arrivate solo più tardi perché il soggetto della gara era completamente mutato.

La vittoria dell’Inter ci dice diverse cose tra le quali si inserisce anche la casualità ma che rivela soprattutto due dati. Il primo nasce dalla consapevolezza di una squadra che, dopo aver vinto lo scudetto è diventata maggiorenne. Ha ancora tanto da imparare e da chiedersi, ma dopo una lunga adolescenza di questi anni l’Inter ora ha una cognizione di se decisamente più stabile. Italiano aveva preparato una condotta di gara prevedibile ma sempre efficace: andare a tavoletta, fare pressing alto, prendere il maggiore vantaggio possibile da quel ritmo e speculare fino al termine.

In pratica la viola è andata a 100 all’ora mentre la squadra di Simone Inzaghi proseguiva a 70. È un rischio in entrambi i casi perché, se dopo aver corso tanto, il vantaggio (ottenuto dopo un fallo non sanzionato su Skriniar) è di una sola rete, contro una formazione importante rischi (ed è quello che è accaduto) di pagarla. È rischiosa anche la scelta di non assecondare il ritmo degli avversari, proseguendo per la propria strada, perché si rischia di andare sotto anche più di un gol se non hai un portiere di gran classe (ebbene sì, Handanovic) o gli avversari non falliscono le occasioni da gol.

In ogni caso è il piano partita della grande squadra, quello che resta allo stesso ritmo, non si fa prendere dal panico e non cede a isterismi, ovvero la direzione che ha preso l’Inter.
Quanto merito c’è nel lavoro di Conte in tutto questo? Tanto, non c’è dubbio. Tanto non significa tutto. La perplessità sulla scelta di andarsene nasce proprio da questo. È sempre più incomprensibile come un allenatore come lui abbia tanto sottostimato la dirigenza, non riconoscendogli la minima fiducia nelle capacità di allestimento della squadra in previsione delle partenze eccellenti. Lui era dentro il club e doveva conoscere il valore dei dirigenti ma forse è vero che se ne sarebbe persino andato l’anno prima per divergenze con la società. In tutto questo ha comunque fatto un lavoro che al netto delle turbolenze è chiaro e visibile ancora oggi.

Il secondo dato viene dalle risorse che lo stesso Simone Inzaghi sta imparando a valutare. Mai visto tanto equilibrio, tanto collettivo, pur senza dare la sensazione di avere risorse imprescindibili. Ogni giocatore è coinvolto, chiunque sa di poter essere impiegato e di potersi ritagliare un ruolo importante. Da Vecino a Sanchez, da Gagliardini a Di Marco. Oggi chi sta giocando meno sono D’Ambrosio e Satriano ma c’è la sensazione che arriverà anche il loro turno. Un paradosso se si pensa che Inzaghi veniva rimproverato di essere un tecnico che amava giocare con lo stesso undici, schierando raramente le riserve alla Lazio.
È una vittoria certamente pesante che consegna un’Inter ufficialmente solida. La percezione era proprio quella, ma oggi c’è la prova di quanto sia serio il progetto e di quanto sia forte Marotta, il vero top player del club.