Era il 6 Maggio del 2001, una data sicuramente impressa nel cuore di molti romanisti. Quarantuno giorni dopo avrei compiuto 15 anni e la Roma, il 17 giugno, avrebbe raggiunto il suo terzo scudetto. A quell’età tifavo Roma principalmente per due motivi: perché era la squadra della mia amata città e perché ci giocava Francesco Totti. Mia sorella, romanista come me con cinque anni in più addosso, impazziva invece per le gesta di Montella.

Ad ogni suo goal il nostro salotto si trasformava puntualmente in una pista di atterraggio su cui lei si divertiva a planare, a braccia tese, nel tentativo di emulare ciò che intanto Vincenzino stava facendo sul campo: il proverbiale “aeroplanino”. Quel giorno la Roma disputava la gara di ritorno al Delle Alpi (dello “Juventus Stadium” si sarebbe parlato solo dieci anni più tardi), presentandosi nella “tana” degli avversari con sei punti di vantaggio e circa diecimila tifosi al seguito pronti a sostenerla a perdifiato. Nemmeno il più ottimista dei romanisti avrebbe mai potuto immaginare che l’epos di quella sfida sarebbe riecheggiato sino ad oggi, consacrandola come una delle parentesi più importanti e significative della recente storia giallorossa a tal punto che, se richiesto, due tifosi su tre sono ancora in grado di raccontarla minuto per minuto.

Sulla panchina della Roma sedeva l’austero mister Capello che, pronti via, osserva impotente i suoi andare sotto di due reti. Non è ancora scoccato il quarto minuto di gioco, infatti, quando un’amnesia collettiva dei giallorossi permette a Zidane di scodellare, con la sublime eleganza che è stata il marchio di fabbrica del francese, un traversone calibrato all’indirizzo di Alessandro Del Piero che, lasciato inspiegabilmente solo al centro dell’area, anticipa un incerto Antonioli, uscito in ritardo, e insacca. Ma non è finita qui. Neppure il tempo di rimettere il pallone a centrocampo e i padroni di casa raddoppiano: Inzaghi appoggia centralmente per Zidane, il quale s’infila tra le larghe maglie della mediana giallorossa e, dal limite dell’area, scaglia un preciso rasoterra siglando la rete del raddoppio. I due goal subiti a stretto giro di posta rappresentarono un’autentica doccia gelata per le ambizioni giallorosse.

La squadra, che sembrava completamente in bambola, rischiò anzi di incassare il terzo goal, quello che avrebbe posto una pietra tombale sul match. Nello spicchio di stadio che li vedeva stipati all’inverosimile, i tifosi giallorossi erano letteralmente ammutoliti, mentre noi, sul divano di casa, fissavamo sgomenti lo schermo, con le mani a sorreggere le guance e le bocche spalancate di fronte alle immagini di una partita tanto importante trasformatasi improvvisamente nel più obbrobrioso dei film horror. I fatti parlavano chiaro: con quel risultato i bianconeri avrebbero accorciato sensibilmente le distanze in classifica e il sogno romanista, durato 18 lunghi anni, aveva buone probabilità di infrangersi nuovamente sul più bello. Il cenone dello scudetto, insomma, rischiava di diventare indigesto poco dopo aver apparecchiato la tavola.

Bisognava imperativamente modificare qualcosa nello scacchiere giallorosso, fare una scelta in grado di cambiato le sorti della gara. Il jolly salvifico viene pescato al 59’, quando Capello si inventa una mossa decisamente azzardata, rivelatasi tuttavia vincente: richiama in panchina il capitano, Francesco Totti, e al suo posto fa entrare Nakata, centrocampista offensivo di nazionalità giapponese. Venti minuti dopo l’ingresso in campo, il “Beckham del Sol Levante” anticipa Tacchinardi in mediana e, giunto a venticinque metri dalla porta, lascia partire una sassata che si infila sotto l’incrocio, portando la Roma sul 2-1. Un gol pazzesco, indimenticabile per forza e significato. Una medicina per rivitalizzare i sopiti animi giallorossi e una dolorosa ferita inferta a quelli bianconeri. Nel nostro salone erano volati telecomando e cuscini. Ci profondevamo in abbracci concitati, caricandoci l’un l’altro come i ragazzi in campo: la speranza di poter riagguantare la partita, scongiurando quella che sino a pochi istanti prima aveva tutti i crismi della disfatta, era riaffiorata.

Nei minuti seguenti la tensione salì alle stelle. Dagli spalti del settore ospiti, si incitava senza sosta la squadra a non mollare. I bianconeri iniziavano così a subire la pressione di una situazione psicologica capovolta: una Roma vivificata, che aveva ritrovato d’incanto piglio e mordente, e una Juventus frastornata, che aveva smarrito i punti di riferimento. Si giunge in un baleno al 90’. Ed è incredibile come il tempo passi velocemente quando vorremmo che scorresse più lento! Arriva l’indicazione dei minuti di recupero: sono cinque, per fortuna. In cinque minuti tutto può accadere. Anche un miracolo. Ciò che, infatti, avvenne: il protagonista è ancora Nakata che, ricevuta palla da Candela, con il piede ancora caldo per la prodezza di qualche minuto prima, non ci pensa due volte e da fuori area lascia partire un tiro che Van Der Sar non trattiene. Il più lesto dei suoi ad avventarsi sul quel pallone vagante è Montella, che da vero rapace anticipa tutti e in mezza girata mette il sigillo del definitivo 2-2. “Goooooooal” urla mio padre, scattando in piedi e facendosi sentire in tutto il palazzo.

Il settore giallorosso esplode, mentre mia sorella si lancia dal divano e mi piomba addosso come Batistuta fa in campo con Montella. La classifica ora recita così: Roma 64 punti, Lazio 59, Juve 58. Quella sera, nella città eterna, si festeggiò fino all’alba. Il terzo scudetto era sempre più vicino. E noi non stavamo più nella pelle.