24 luglio 1996, Franz Horr Stadion di Vienna. Giuseppe Giannini, nato a Roma trentuno anni prima, sta scendendo in campo per la prima volta con la maglia dello Strum Graz, al debutto nella Bundesliga austriaca sull’ostico campo dell’Austria Vienna. La maglia dello Strum Graz è bianconera e Giannini, Beppe come lo chiamavano a Roma, sa che per la prima volta non sarà giallorossa. Così, per tener vive fede e memoria, all’ingresso in campo porta al collo una sciarpa, con i colori della maglia che ha indossato per 318 volte in 15 anni, dal 1981 al 1996. Quella della squadra di cui è stato simbolo e capitano: la Roma.

Tutto era finito troppo in fretta, poco più di due mesi prima. Infatti, è il 5 maggio 1996 la vera data da ricordare. Dall’Austria si torna in Italia, ma non a Roma. La Capitale è il cuore pulsante della carriera di Giannini, forse per questo sembra destinato a non doverla più incontrare. Quel 5 maggio di ventiquattro anni fa, la Roma gioca a Firenze, in trasferta.

Fiorentina-Roma 1-4: l’ultima del Principe

È la penultima giornata di un campionato con vista sull’Europa per i giallorossi guidati da Carlo Mazzone. Il tecnico va a Firenze con la squadra, ma guarda la partita dalle tribune del Franchi, per colpa di una squalifica da scontare. I tifosi romanisti si muovono in massa: ci si gioca qualcosa di importante e poi, in quelle ultime giornate, tutti sanno che cosa succederà alla fine del campionato: il capitano, il Principe Giannini, lascerà la Roma. Le celebrazioni però, sono attese per l’ultima partita, contro l’Inter, ovviamente all’Olimpico.

Giannini scende in campo a Firenze con una diffida sulle spalle, una croce da portare per chi vuole giocarsi la sua ultima partita a casa. A casa, non in casa. Sarà il giallo estratto da Emilio Pellegrino, arbitro di Barcellona Pozzo di Gotto, a impedirglielo: un cartellino che sa di amarezza.
Il principe resta bloccato, ma metabolizza anche l’amaro in bocca. Gioca una partita monumentale, è padrone assoluto del centrocampo.

La Fiorentina, di Claudio Ranieri e Gabriel Omar Batistuta, passa subito in vantaggio con gol proprio del centravanti argentino. La Roma si accende, con Giannini ad orchestrare: prima segna Abel Balbo su rigore, poi è il capitano giallorosso ad imbeccare in profondità Marco Delvecchio. E sullo stesso asse si creano i presupposti, al 35’, per il secondo rigore per la Roma, che ancora Balbo trasforma portando il risultato sull’1 a 3. Chiuderà i conti ancora Delvecchio, servito stavolta da Luigi di Biagio, ma per Giannini c’è ancora qualcosa da pagare. Il peso delle emozioni, la tensione trattenuta per quel giallo che ha interrotto una favola a poche pagine dalla sua conclusione. Così, Giannini piange e corre sotto il settore ospiti, per l’abbraccio commosso con i tifosi. La Roma ha vinto, la Coppa Uefa diventa un traguardo ipotecato e il Principe ha giocato la sua ultima partita in giallorosso. Un ritratto imperfetto di una storia non sempre splendente.

Giannini nel cuore dei tifosi

Il peso che porta in dote il capitano della Roma, quando romano e romanista, è quello di essere identificato con la squadra stessa. Un binomio indissolubile, che si è visto esattamente a partire da quel 5 maggio ’96 con ancor più nitidezza. Giannini esce di scena, ma non lascia il palco vuoto: c’è già un altro attore in rampa di lancio pronto a segnare a sua volta una parte di storia della Roma. Francesco Totti, chi sennò. Quel Totti che ha sempre tessuto le lodi di Giannini, l’eroe di una squadra troppo spesso ribattezzata squadretta, o Rometta, un nomignolo che ha fatto epoca. L’epoca del Principe, ma non dei Re.

Non di Bruno Conti da Nettuno e Agostino Di Bartolomei di Tor Marancia (o Falcao, troppo forte, anche se non romano), nemmeno di Francesco da Porta Metronia e Daniele De Rossi di Ostia. È la Roma di Giannini, romano, romanista, ma senza trono. Perché non è una Roma da conquista, è una Roma da sesto posto, ottavo, decimo, terzo quando è andata per il meglio. È una Roma che gioisce per il ribaltone sfiorato in Coppa Uefa contro lo Slavia Praga, sempre nel ’96, con Giannini che segna all’Olimpico ed esulta, inseguito proprio da Totti, che solo cinque anni dopo vincerà lo Scudetto.

Giannini c’era, nel 1983, quando la Roma di Nils Liedholm divenne tricolore. C’era, anche senza essere mai sceso in campo. Una gioia più da tifoso, che da giocatore. E come detto, parte delle responsabilità della squadra, di quella Roma, si sono riflesse sul suo capitano e giocatore simbolo. Ma la Roma non lo dimentica. Giannini ha mantenuto il suo posto nella storia giallorossa. «Solo chi la ama e chi soffre per la maglia ha il diritto di onorarla… per sempre. Grazie Capitano» scrisse la Curva Sud, il 12 maggio in occasione della sfida contro l’Inter, quell’ultima di Giannini che non c’è mai stata: parole che si legano al collo, come una sciarpa indossata la prima volta allo stadio da ragazzino e mai tolta, nemmeno a migliaia di chilometri di distanza, più di vent’anni dopo.