Appesa alle cancellate dello Stadio Filadelfia c’è una foto del Grande Torino schierato. Accanto a questa qualcuno ha attaccato un biglietto. C’è scritta una poesia in piemontese di Giovanni Arpino che recita così: “Russ cume ‘l sang | fort cume ‘l Barbera | veuj ricurdete adess, me grand Turin. | En cui ani ‘d sagrin | unica e sula la tua blessa jera”. Rosso come il sangue, forte come il Barbera. Voglio ricordarti adesso, mio Gran Torino. In quegli anni di tribolazioni unica e sola la tua bellezza era.

C’è tutto il Torino qui, c’è tutta Torino, non solo quella calcistica. C’è qualcosa che per tantissimi, anche fuori dai confini piemontesi, ha rappresentato un simbolo: non era solo una squadra di calcio, quella, era la voglia di vivere e di sentirsi di nuovo cittadini di una città viva, che prendeva alla gola passando davanti alle macerie di piazza San Carlo, di fronte agli edifici sventrati dalla guerra. La descrisse così Giorgio Bocca, giornalista e scrittore: quel Torino, quella forza, quell’emanazione di vita, era di tutti.

I 5 Scudetti consecutivi

L’epopea del Grande Torino inizia nel 1939, quando l’industriale torinese Ferruccio Novo assume la presidenza del club. Impiega 3 anni per mettere insieme l’ossatura della squadra che negli anni post conflitto dominerà incontrastata il calcio italiano: già nel 1942 fanno parte dell’11 titolare 6 giocatori della formazione tipo del Grande Torino: Grezar, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola e Ferraris II. Il centrocampo e tutto il reparto d’attacco.

Il Toro gioca col sistema WM, un impianto tattico rivoluzionario per l’epoca: quel 3-2-2-3, con tre difensori, quattro centrocampisti (due mediani e due interni), tre attaccanti posti ai vertici di una W e una M, sarà il modulo di riferimento per decenni a venire, resistendo, per i “puristi” del genere, addirittura fino alla rivoluzione del gioco a zona del calcio olandese degli anni ’70 e del Milan di Sacchi alla fine degli ’80.

Il Toro vince lo Scudetto, il secondo della sua storia, e la Coppa Italia. La guerra, però, interrompe il sogno. Un sogno che resterà solo sospeso, fino al 1945, anno in cui il Torino si compie e diventa Grande.

Il gruppo, che dalla metà campo in su annovera alcuni tra i migliori giocatori dell’epoca, viene blindato in porta e in difesa, con gli innesti di Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Rigamonti e Castigliano. Quella che era una squadra fortissima diventa una corazzata: solidissima nel reparto difensivo, letale in attacco, guidata dall’esplosione del miglior Valentino Mazzola, che si afferma come quello che può essere considerato uno dei primi “tuttocampisti” della storia del calcio.

Forte fisicamente, è efficace in fase di rottura a centrocampo (in cui spesso viene impiegato, specie nel suo primo anno a Torino), ha visione di gioco, capacità di impostazione, velocità e una letalità in zona gol senza pari: nelle successive 4 stagioni il numero 10 granata trascina la squadra con 107 reti in 165 presenze.

Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola: 11 nomi che fanno del Toro una macchina inarrestabile. I granata conquistano 4 Scudetti consecutivi, dal 1945 al 1949 (dopo quello del ’43), stabiliscono il record di reti segnate in una sola stagione, 125 nel 1947-48, e quello di imbattibilità casalinga, con 88 partite senza sconfitte dal 1943 al 1948.

L’organico del Torino diventa a tutti gli effetti quello della Nazionale Italiana: passerà alla storia la gara disputata dall’Italia contro l’Ungheria, l’11 maggio 1947, i cui tutti i giocatori di movimento, 10/11 della formazione titolare, appartenevano al Toro. L’Italia vinse 3-2, con doppietta di Gabetto e gol di Loik.

E’ proprio al termine di una partita della nazionale, Italia-Portogallo giocata a Genova nel 1949, che Francisco Ferrerira, veterano dei lusitani e del Benfica, di cui era capitano, chiede a Valentino Mazzola che il Torino disputi a Lisbona la sua partita di addio al calcio giocato. Mazzola promette, e il presidente, Ferruccio Novo, accorda la trasferta a patto che il Toro, primo in classifica, fermi l’Inter nello scontro diretto per il titolo. La partita finisce 0-0, il Torino ipoteca lo Scudetto e può partire per l’amichevole col Benfica a Lisbona, un viaggio da cui, però, non farà ritorno.

La tragedia di Superga

Sono le 17.05 del 4 maggio 1949. Il trimotore che trasporta la squadra di ritorno dal Portogallo si immerge in una nube che sovrasta Superga, la collina che domina Torino a est. Il pilota, che pensava di avere tenuto la collina sulla destra, privo di visibilità e tradito dai rilevatori di bordo, vede la basilica comparire di fronte all’improvviso e non ha il tempo per fare nulla. E così solo il fato li vinse, in quel giorno.

Nell’impatto muoiono tutte le 31 persone a bordo.

I funerali si tennero 2 giorni dopo, il 6 maggio 1949, nel Duomo di Torino. Una folla oceanica di 600 mila persone scese per le via della città, per dare l’ultimo saluto a giocatori, dirigenti, giornalisti al seguito della squadra e ai membri dello staff dell’aereo: “Nella gran piazza gremita non si distingueva più che un vago disegno, che macchie più scure, meno scure, confuse, poi annullate. Ma in quel buio, in quel nero si sentì come un palpito, segreto, fuggevole. Non suono, né luce, né voce. Il palpito di un sogno infranto” è il racconto de La Stampa di quel giorno.

Nelle ultime 4 partite di un campionato spezzato dal dolore, il Torino manda in campo i ragazzi delle giovanili, e le avversarie schierano i pari età, verso quello che sarà il quinto Scudetto consecutivo per la società granata, nell’anno che consegna alla leggenda gli Invincibili.

La ricorrenza del 4 maggio

Ogni 4 maggio, per i tifosi del Torino e per tutti coloro che abbiano a cuore la vicenda sportiva e umana del Grande Torino, è ricorrenza di memoria e ricordo, ricorrenza celebrata con una processione per le vie di Superga, in un pellegrinaggio a piedi, nella salita che conduce alla Basilica, in cui un fiume granata sfocia nel piazzale sulla cima della collina e prosegue fino alla lapide. Qui, scanditi dal capitano del Toro, risuonano i nomi dei caduti. Quest’anno, in cui la celebrazione avrà luogo in forma ristretta presso lo stadio Filadelfia, ancora un volta ci si fermerà nel ricordo di una squadra, di uomini, le cui vicende sono scritte nell’identità di Torino e dei torinesi. Uomini che in qualche modo non sono mai andati via. Perché come scrisse Indro Montanelli, in quel maggio del ’49: “Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede”.