Diego Armando Maradona se n’è andato: un arresto cardio-respiratorio lo ha portato via, all’età di 60 anni, nella sua casa di Tigre, il quartiere di Buenos Aires nel quale aveva fatto ritorno a seguito dell’operazione al cervello sostenuta all’inizio del mese. Campione del Mondo con l’Argentina nel 1986 e due volte Campione d’Italia con il Napoli nel 1987 e nel 1990, è nel novero dei calciatori più grandi di ogni tempo, se non il più grande secondo molti.

Il decesso a Buenos Aires

La notizia ha iniziato a rimbalzare tra i media internazionali nel tardo pomeriggio di ieri: intorno alle 12 ora argentina, le 16 in Italia, Maradona ha subito un arresto cardiaco fatale. Inutili i tentativi di rianimazione dello staff medico che assisteva la sua convalescenza a seguito dell’intervento chirurgico sostenuto nella notte del 4 novembre scorso: l’operazione d’urgenza era stata resa necessaria per la rimozione di un’edema subdurale in zona cranica. Sin dai momenti immediatamente successivi all’intervento il neurochirurgo che lo aveva operato aveva parlato delle difficoltà del quadro clinico del Pipe de Oro, vista la sua condizione di generale debilitazione.

Diego, la nascita del mito

In uno dei primi filmati che lo ritraggono, un giovanissimo Maradona si esibisce in una serie di palleggi, in un campo di terra battuta e calcinacci. La troupe televisiva era arrivata a vedere da vicino quello che le voci raccontavano essere un potenziale nuovo fenomeno del calcio argentino. E’ il 1971, Diego ha 11 anni, ha un paio di scarponcini ai piedi che di tecnico hanno davvero poco e palleggia da fermo. Si sbilancia all’indietro, ma la tiene su di testa, la palla non tocca terra. “Ho due sogni – dice nella breve intervista al giornalista – Uno è giocare il Mondiale, l’altro è diventare Campione del Mondo”.

La sua storia di calciatore era iniziata per caso un anno addietro. Villa Fiorito, il suo barrio di provenienza, è un quartiere poverissimo a sud di Buenos Aires, uno dei tanti conglomerati urbani periferici nati a seguito della migrazione di quelle migliaia di persone che da ogni angolo dell’Argentina si erano spostate verso la capitale, terra promessa Peronista della rivalsa dalla condizione contadina.

Al tempo le reti di scuoting dei prospetti giovanili erano demandate a una serie di osservatori quasi sempre amatoriali che “pattugliavano” i campi in terra battuta incassati tra le baracche in lamiera, con la speranza di portare alla luce uno di quei diamanti grezzi nascosti tra la polvere dei campi sudamericani. Leggenda vuole che a orbitare a Villa Fiorito fosse Francisco Cornejo, un impiegato di banca con la passione per il calcio. Di fronte ad un partitella tra bambini venne colpito da un ragazzino di 10 anni che già aveva nomea di essere il più bravo del quartiere. No, non era Maradona, era tale Goyo Carrizo, migliore amico del piccolo Maradona, che ricevette la proposta di sostenere un provino per le giovanili dell’Argentinos Juniors.

Il bambino accettò, a patto di poter portare con sé l’amico Diego. I due si recarono al campo di Las Malvinas nel novembre del 1970. Goyo, che di ruolo faceva l’attaccante, non si muoverà mai da Fiorito, dove tutt’oggi vive con la famiglia. Il suo migliore amico, invece, firmò il suo primo contratto il giorno stesso e mosse il primo passo del percorso che lo avrebbe portato a diventare Diego Armando Maradona.

Maradona, la carriera da calciatore

Dopo avere surclassato i propri coetanei nelle giovanili dell’Argentinos Juniors, Diego viene promosso in prima squadra ed esordisce nella Primera Division Argentina nel 1976, 10 giorni prima di compiere 16 anni. Nel primo anno segna 2 reti, 19 il secondo, 26 il terzo e il quarto, 43 il quinto.

Vince per due volte il Pallone d’Oro sudamericano, nel 1979 e nel 1980. Su di lui si fanno sotto le grandi del calcio europeo, Barcellona, Juventus e Napoli su tutte, ma il popolo argentino insorge: Maradona non è solo un calciatore formidabile, ma è l’afflato di riscatto sociale che riempie i polmoni di un popolo intero che ne grida il nome. Diego deve restare in Argentina e, a furor di popolo, ci resta.

Veste la maglia del Boca Juniors, una delle squadre simbolo della nazione, che per superare l’offerta economica delle ben più ricche società europee rischia la bancarotta. La formula è quella del prestito, ma a fine stagione l’impellenza del pagamento del cartellino si ripropone e la cessione di Maradona diventa un obbligo: il costo del giocatore non è sostenibile per le casse del club.

La prima a farsi avanti è il Barcellona, che con un’offerta di 12 miliardi dell’epoca lo porta in Spagna. Due stagioni e 3 coppe nazionali: bene il primo anno, un disastro il secondo. La parabola sembra quella tipica di tanti calciatori sudamericani dell’epoca, triturati da un continente distante un oceano da casa, calati in un altro calcio, in un altro mondo, in un’altra vita e imbarcati in un volo transcontinentale di ritorno dopo vicende più o meno rimarcabili.

Nel secondo anno a Barcellona contrae l’epatite virale e perde gran parte della stagione; torna in campo, ma un terribile fallo di Andoni Goicoetchea, difensore dell’Athletic Bilbao, gli procura la frattura del malleolo e la rottura dei legamenti della caviglia sinistra. In questo quadro, con un calciatore a pezzi, per molti finito e sulla via del ritorno in Argentina, il suo orizzonte si tinge d’Azzurro.

É il 5 luglio 1984 quando, dalla gradinata che dagli spogliatoi conduce al terreno di gioco, Diego Armando Maradona esce sul campo del San Paolo, dove 80 mila persone gridano il suo nome. Inizia lì, in uno stadio ruggente e stracolmo, la storia d’amore tra Napoli, il Napoli e Maradona.

Maradona sopperisce alla taglia corporea piuttosto minuta con una tecnica superiore, velocità d’esecuzione, progressione ed un’implacabile precisione nei calci da fermo. Nel primo anno il Napoli conclude all’8° posto, poi al 3° il secondo. É il preambolo dell’apice, della sublimazione del calciatore in campione immortale, fenomeno di massa, entità ultraterrena.

Il 1986 è l’anno dei Mondiali del Messico e l’Argentina è protagonista di una cavalcata trionfale. Si qualifica come prima nel girone A (quello in cui è inserita anche l’Italia), supera l’Uruguay, l’Inghilterra, il Belgio in semifinale. É il 29 giugno del 1986 quando, all’Estadio Azteca di Città del Messico, l’Albiceleste batte la Germania Ovest in finale e si laurea Campione del Mondo.

Maradona alza la coppa al cielo da capitano, dopo avere trascinato la sua nazionale con prestazioni fuori dal mondo, tra cui quella leggendaria ai quarti di finale contro l’Inghilterra, in cui in 4 minuti impresse nella storia del calcio due dei momenti tra i più iconici di sempre, la Mano de Dios e il Gol del Secolo.

Divenuto immortale in patria, diviene immortale per i propri tifosi anche in azzurro nella stagione successiva, in cui porta a Napoli il primo Scudetto della propria storia e, nello stesso anno, la Coppa Italia. Due secondi posti, poi la Coppa Uefa (primo titolo internazionale in assoluto per i partenopei) e ancora una volta lo Scudetto nel 1990.

I conflitti, la dipendenza, il tramonto

“Maradona è diventato una specie di Dio sporco, il più umano degli dei. Questo forse spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di ogni altro giocatore. Un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone”, lo descriveva così Eduardo Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano, che di Maradona fu un grande amico. La fallibilità dell’uomo, a fare da rovescio della medaglia all’infallibilità del calciatore, ma al contempo a renderlo reale, tangibile.

Lo sa bene chi ha assistito alla sua ascesa inesorabile e ne ha visto le ali sciogliersi. Dalle voci di frequentazioni con la malavita a Napoli, a quelle di abuso di sostanze stupefacenti, fino all’evidenza dei problemi di alcolismo e al crollo del castello ai Mondiali di Usa ’94, quando venne trovato positivo all’efedrina al controllo antidoping.

C’è una coerenza, però, nell’epopea sportiva e umana di Maradona: la fedeltà assoluta alle proprie contraddizioni e l’inscindibilità dei due lati. Maradona è l’atleta che palleggia a ritmo di musica sulle note di “Live is Life”, il 19 aprile del 1989, nel riscaldamento della semifinale di ritorno di Coppa Uefa a Monaco di Baviera, gara che poi condurrà alla finale vinta contro lo Stoccarda, ed è l’uomo grasso che gioca a golf a Cuba; è il calciatore che ha fatto grande il Napoli e che con Napoli ha scambiato il cuore, ed è quello che manda al diavolo il San Paolo che fischia il suo inno; è l’uomo degli insulti a Pelè e dei complimenti a Pelè; l’amico di Fidel, il nemico di Bush, quello che dice al papa di vendere l’oro del Vaticano; è l’idolo degli ultimi, è il tossicodipendente, l’alcolista, il genio. E’ quello che ai Campionati del Mondo segna un gol barando e 4 minuti dopo ne segna un altro impossibile per gli esseri umani, abbattendo, un uomo dopo l’altro, un’intera nazionale.

In fondo a tutto, Maradona è stato per generazioni di appassionati uno dei motivi per amare il calcio, come ha spiegato bene Roberto Fontanarrosa, fumettista argentino, che di Maradona disse: “Che mi importa di ciò che Diego ha fatto con la sua vita. Mi importa ciò che ha fatto nella mia”.