Forse nessuno può incarnare come George Best l’irripetibilità di un certo tipo di calcio, quello degli anni ’60-’70: per le caratteristiche dello sport dei giorni nostri, quello ad altissimi livelli, in cui per mantenere standard da prima fascia un calciatore non può più prescindere dall’essere anche un atleta di primo piano, una figura come quella di Best, con entrambe le anime di Best, è probabile non si vedrà mai più.

Ai limiti dell’impossibile l’affermazione a quel livello di qualcuno che ne incarni tutti i tratti da eroe tragico, tracciati con lo stesso marcatissimo tratto di quelli del giocatore nordirlandese: il talento, la fantasia, lo stile, la classe superiore; tutto questo preso, impacchettato e unito all’altra parte, quella votata all’eccesso, alla noncuranza delle regole, all’autodistruzione. Un cocktail di elementi che, ad alti livelli – e quando si parla di Best si parla dell’élite per quanto concerne il proprio tempo – oggi è difficile da immaginare.

Una vita di contrasti

Si potrebbe raccontare il personaggio George Best sciorinando la ricchissima raccolta di sue citazioni, spesso estreme, sempre fulminanti, con cui descrisse il suo modo di vedere sé stesso, prima ancora che il mondo intorno a lui. La più celebre di tutte “Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci… Tutti gli altri li ho sperperati” è un piccolo capolavoro di storytelling, ma racconta solo una parte del suo universo.

Ce n’è una che lo racconta quasi tutto, ed è questa: “Se io fossi nato brutto, non avreste mai sentito parlare di Pelé”. C’è sì il riferimento (seppur indiretto) al fatto che molte delle passioni caratterizzanti “bruciavano” fuori dal terreno di gioco, ma c’è anche il campo: la sicurezza di sé, giustificata da un talento fuori dal comune, che tracima nell’arroganza, c’è la dichiarazione di appartenenza ad un club, quello dei migliori, che ammette una manciata di giocatori nell’arco della storia, e c’è la tragica incompiutezza sportiva.

La specifica “sportiva” è necessaria, perché a modo suo il personaggio di George Best, inteso a tutto tondo e non solo come sportivo, è pienamente coerente con sé stesso e la parabola che è stata la sua vicenda ha tratti di compiutezza, di senso, seppur drammatico: nato in un quartiere proletario dell’est Belfast, una sensibilità calcistica innata (solo sporadicamente coltivata) lo porta al vertice del calcio mondiale, alla Coppa dei Campioni vinta col Manchester United, al Pallone d’Oro vinto a 22 anni, al lusso, all’affermazione sociale. E qui, nel desiderio di salire ancora verso il sole, Icaro cade, o meglio deflagra, in una supernova fatta di comportamenti eccessivi, spericolati, sprezzanti delle regole e spesso del buon senso.

George Best, l’ascesa di un campione

Le sue caratteristiche di diamante grezzo furono subito chiare a Bob Bishop, osservatore calcistico per conto del Manchester United nell’Irlanda del Nord. Bishop lo segnalò a Matt Busby, l’allora tecnico dei Red Devils, che si rese conto che il diamante non poteva essere sgrezzato: “Non insegnategli niente, non modificate il suo stile di gioco – disse ai responsabili del settore giovanile – lasciate che lo sviluppi come gli viene naturale. Lui è speciale.”

Lo era: la leggerezza di un fisico troppo gracile è compensata da caratteristiche tecniche da fuoriclasse; esterno d’attacco, Best ha tiro, velocità, visione di gioco e una letalità senza pari nell’uno contro uno. Debutta in prima squadra non ancora maggiorenne e non esce più dalle rotazioni di Busby.

Vince il campionato inglese al secondo anno da professionista. Poi un altro due anni dopo, due volte la Coppa di Lega, nel 1965 e nel 1967, anno in cui esplode definitivamente come calciatore: segna a raffica e i suoi gol guidano lo United alla conquista della Coppa dei Campioni del 1968, in finale contro il Benfica di Eusebio, annichilito 4-1 (proprio di Best il gol che porta in vantaggio i Red Devils ai supplementari, dopo l’1-1 dei tempi regolamentari).

Nello stesso anno vince il Pallone d’Oro, davanti a giocatori come Bobby Charlton (suo compagno di squadra), Franz Beckenbauer, Gianni Rivera e lo stesso Eusebio. Ha 22 anni, i tifosi del Manchester sono ai suoi piedi, è l’idolo di un’intera nazione, l’Irlanda del Nord. È il calciatore più forte del mondo, ricchissimo, frequenta donne bellissime: più che un semplice calciatore è una rock star, tanto da indurre la stampa ad identificarlo come il quinto componente dell’unico fenomeno mediatico in grado di pareggiarne la portata: i Beatles.

I problemi con l’alcol e il declino

Ed è qui che la sua fama, il suo personaggio, lo annichilisce. A seguito dei grandi successi del 1968 disputa altre 4 stagioni ad alto livello, seppur senza trofei, poi imbocca una strada il cui declino è dapprima lieve, poi sempre più ripido. Prima giunge l’involuzione sportiva, accelerata da una vita sregolata fatta di sfrenati eccessi alcolici: gioca in Sudafrica, in Scozia, negli Stati Uniti, in Australia, in Irlanda del Nord. Campionati minori e squadre i cui nomi, fatta eccezione per la parentesi col Fulham, compaiono in voci marginali della geografia del calcio.

Quando il pallone smetterà definitivamente di fare parte della sua vita, l’alcol si prenderà tutto. Il finale tragico giunge nel 2005, a Londra.  Nel giorno del suo saluto oltre centomila persone, divise in due ali di folla, ne hanno accompagnato il tragitto dal centro di Belfast fino a casa, quel sobborgo di Cregagh in cui era cresciuto. Aveva 59 anni.

George Best, che occupa la 16esima posizione nella classifica dei più forti calciatori del ventesimo secolo stilata dalla IFFHS (la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio), oggi avrebbe compiuto 74 anni.