“Il gioco comanda, i giocatori lo interpretano”: non c’è una sintesi migliore del pensiero di Arrigo Sacchi applicato al calcio. C’è l’obbligo, la causa superiore, il diktat morale che ha guidato ogni suo passo da allenatore: il gioco. Sopra tutto e sopra tutti. A cui segue il secondo grande tema di una carriera scandita da ferme prese di posizione con i calciatori e, talvolta, da contrasti con chi si dimostrasse incapace di seguire i dettami di quella che sarebbe stata la rivoluzione che, come ogni rivoluzione, ha segnato un prima e un dopo.

“Sacchi ci ha insegnato tutto”: i primi anni in provincia

Arrigo Sacchi nasce il 1° aprile del 1946 a Fusignano, in Emilia Romagna. Il papà Augusto ha un passato da calciatore nella Spal e in famiglia c’è l’humus giusto per fare crescere una passione la cui espressione pratica però non sboccia: Arrigo non è un gran calciatore, gioca in difesa nelle giovanili del Baracca Lugo, a pochi chilometri da Fusignano, ma i piedi invitano a non volare troppo alto con la fantasia.

Inizia quindi a lavorare nell’azienda di famiglia, che produceva scarpe, facendo il rappresentante in lungo e in largo per l’Europa. E’ in questi anni che Sacchi inizia a studiare il calcio europeo, rimanendo folgorato dall’Ajax di Rinus Michels. Al contrario dei piedi, il cervello gira a mille all’ora: “Per diventare un buon allenatore non bisogna essere stati per forza dei campioni; un fantino non ha mai fatto il cavallo” una delle sue massime più celebri. L’occasione per dimostrarlo, mettendo mano ad una passione mai sopita, giunge quando un gruppo di amici gli propone di rilevare la squadra del paese, il Fusignano.

Inizia quello che sarà un tirocinio, scandito da promozioni e vittorie di categoria, tra le squadre dilettanti della zona: Alfonsine, Bellaria, prima delle giovanili del Cesena. Anni di sperimentazione, in cui il germe della filosofia sacchiana faceva capolino senza che gli interpreti di allora potessero ancora riconoscere i connotati di quella che sarebbe stata la rivoluzione: Daniele Zoratto, la cui carriera sarà legata a quella di Sacchi fino all’esordio in nazionale, ricorda così gli anni della Primavera a Cesena: “Più che un allenatore era un insegnante. Sapeva metterci in campo, la tattica, il pressing, il fuorigioco, ci ha insegnato tutto”.

La prima occasione in una squadra professionistica giunge nel 1982 con la panchina del Rimini, a cui seguiranno le giovanili della Fiorentina. Nel 1985 prende il Parma appena retrocesso in C1 e lo riporta in B in un anno. La voce di tutti i protagonisti dell’epoca, coloro i quali hanno lavorato con Sacchi in quegli anni, racconta una sola versione della storia, la stessa per tutti: preparazione fisica estenuante, attenzione maniacale per i movimenti di una difesa molto alta, pressing. Quando, nella stagione 1986-1987, il Parma elimina il Milan dalla Coppa Italia, battendo i rossoneri in casa propria, a San Siro, l’allenatore di Fusignano attira per la prima volta l’attenzione del calcio italiano, un calcio che da lì a qualche anno sarebbe stato stravolto.

I dettami tattici: pressing, difesa a zona, fuorigioco

Quella che vuole il calcio italiano pre-Sacchi come capace di esprimere un solo impianto tattico, con il Catenaccio come unica soluzione, è evidentemente una forzatura: i vari Trapattoni, Bearzot, Radice, Liedholm erano stati a loro modo portatori di una nuova applicazione del pensiero calcistico. Sacchi, più di tutti, fu capace di cambiare in maniera radicale, e col tempo universalmente adottato, il modo di stare in campo. Il concetto del “prima non prenderle” non veniva abbandonato, ma anzi, veniva razionalizzato. Sacchi, per diretta emanazione del modello da lui riconosciuto come il più virtuoso, ovvero quello olandese del calcio totale, costruisce il paradigma secondo cui ogni giocatore deve essere interprete di un ruolo specifico, caratterizzato da movimenti specifici, in una specifica zona del campo. Movimento organico in fase di possesso, movimento organico in fase di non possesso e rottura, che vedono nel pressing sul portatore e sull’attuazione del fuorigioco le proprie espressioni. Per fare questo aveva bisogno di una cosa non scontata: interpreti in grado di assimilare i concetti tattici, con una preparazione fisica adeguata per metterli in pratica. A questo pensò Silvio Berlusconi.

Il Milan 1987-1991: la rivoluzione si compie

Carlo Ancellotti, che del Milan di Sacchi fu il motore e perno centrale, ricorda così l’arrivo del nuovo tecnico: “La prima preparazione con Arrigo è stata terribile. I suoi metodi erano totalmente innovativi. Se prima potevo dire che nel lavoro c’era un’intensità pari a venti, a Milanello l’intensità era pari a cento. Una differenza abissale, una fatica tremenda. A inizio preparazione pesavo 84 chili, alla fine 68. Il terrore di tutti noi erano le scale che portavano alle stanze, non riuscivamo più a farle, ci veniva da piangere. Un calvario, sembravamo un gruppo di zombie. Quando sono tornato a casa, mia madre quasi non mi ha riconosciuto”.

I primi tempi non sono facili, il Milan non brilla in campionato e viene eliminato dalla Coppa Uefa per mano degli spagnoli dell’Espanyol. I critici chiedono l’esonero in caso di sconfitta nella partita successiva con il Verona, ma è nel momento più buio che inizia la storia del Milan degli Immortali guidati da Sacchi: Berlusconi si impunta, prendendo le difese del tecnico di fronte allo spogliatoio, pochi giorni dopo i rossoneri vincono a Verona e iniziano la rincorsa al Napoli di Maradona. Il Milan vola e vince 3-2 lo scontro diretto al San Paolo, proiettandosi verso l’undicesimo Scudetto della propria storia. «Arrigo ci credeva così tanto, era così convinto che alla fine ce ne convincemmo anche noi», dirà Ancelotti.

E Sacchi ci credeva, ma voleva che tutto avvenisse secondo il proprio modo: “Volevo che la squadra difendesse aggredendo e non arretrando, ma avanzando. Era difficile far capire il nuovo modo di giocare, il movimento sincronizzato della squadra senza palla, avere undici giocatori con e senza palla sempre in posizione attiva. Avere una difesa attiva vuol dire che anche quando hanno la palla gli avversari tu sei padrone del gioco. Con tale pressione li obblighi a giocare a velocità, a ritmi e intensità tali per cui, non essendo abituati, vanno in difficoltà”.

Una volta partita, la macchina non si fermò più: 2 Coppe dei Campioni consecutive, 2 Supercoppe Europee, 2 Coppe Intercontinentali, il Milan di Sacchi brillò di una luce inedita per il calcio mondiale, che da quella luce venne pervaso, fino a trasformare il gioco a zona nel canone.
“È stato il più grande rivoluzionario del calcio mondiale. Forse ripete gli stessi concetti, cosa un po’ monotona, però sono i concetti base di ogni squadra, di ogni società” dirà di lui Zvonimir Boban.

La chiusura di carriera

A rompere un ingranaggio che vedeva nella cieca dedizione alla causa da parte dei giocatori la propria conditio sine qua non, fu proprio l’incrinarsi dei rapporti con “gli interpreti” dello spartito. Le crescenti tensioni con alcuni calciatori – celebri gli attriti con uno dei giocatori simbolo dell’epopea sacchiana, Marco Van Basten – portarono ad un cambio di direzione da parte del tecnico che, lasciato il Milan nel 1991, intraprese l’avventura alla guida della Nazionale Italiana, con cui raggiungerà il secondo posto ai Mondiali di Usa 94, sconfitto ai rigori dal Brasile nella celebre finale di Pasadena. Le fugaci esperienze di ritorno con Milan e Parma, inframezzate dalla stagione all’Atletico Madrid, giungeranno a chiusura della carriera da allenatore. Una carriera in cui ha tenuto in mano, dal 1987 al 1991, le istruzioni per un nuovo modo di fare calcio.