Di Gabriele Borzillo
31 Maggio 2020
Il mondo pallonaro è strano, a volte perfino stravagante. Ma, nella sua stranezza, riconosce alcune figure alla stregua di veri e propri eroi dei tempi moderni, immortali ed eterni nell’immaginario collettivo dei tifosi. E non importa dove abbiano militato, se siano stati tuoi avversari o, al contrario, abbiano vestito i tuoi colori: restano e resteranno per sempre monumenti al calcio e allo sport in generale.
Con le sue oltre novecento presenze e quasi ottantamila minuti giocati, Paolo Maldini è l’emblema del rossonero milanista sventolato in giro per il mondo. E, strano ma vero, amato molto più dai tifosi avversari che dai suoi stessi supporter, quelli più caldi intendiamo dire, quelli della curva in soldoni.
Esattamente undici anni fa, all’Artemio Franchi di Firenze, Maldini gioca la sua ultima partita in serie A. Ciò che capita nel capoluogo toscano serve a sottolineare ciò che scrivevamo sopra: manca poco al termine della gara, il Milan ha terminato le sostituzioni, sta vincendo due a zero quando i giocatori viola buttano il pallone in fallo laterale per permettere, al capitano rossonero, il giro d’onore davanti allo stadio gremito tutto in piedi ad applaudirlo. E pensare che solo sette giorni prima, al Meazza, i suoi stessi tifosi lo avevano contestato con un paio di striscioni non propriamente gentili. Non tutti, ci mancherebbe: solo quella parte di cui dicevamo. Perché Maldini è questo. Perché Maldini unisce e non divide. Perché Maldini, anche nei momenti in cui il Milan dominava ovunque e Paolo (scusi sa, ogni tanto la chiamo per nome…) avrebbe potuto permettersi battute e battutine in un mondo dove il rispetto è merce rara, non si è mai bullato prendendo in giro, ironicamente o meno non importa, gli avversari, i tifosi delle altre squadre. Non è un caso se a Milano la curva interista gli ha tributato un lungo applauso, proprio a lui, avversario leale di mille battaglie.
Un’avventura lunga ben ventiquattro anni e mezzo, iniziata anche molto prima se consideriamo le rappresentative giovanili, fin dal lontano 1978, dedicata sempre e comunque all’unico grande amore calcistico della sua vita: il Milan. Un’avventura inaugurata al minuto quarantasei del 20 gennaio 1985 sostituendo Sergio Battistini in quel di Udine, la città nella quale, tu guarda le stranezze del pallone, segnò di più in carriera, lontano dal suo San Siro, in ben tre circostanze. Tre, come tre sono stati i cartellini rossi rimediati in un quarto di secolo, alla media di uno ogni otto anni, da Maldini: niente male, per un difensore di ruolo. Nils Liedholm, l’uomo che lo lanciò quel pomeriggio e che di pallone ne capiva mica da ridere, al termine della partita disse papale papale: “Paolo ha un grande avvenire”. Il Barone, questo il soprannome del tecnico e prima ancora grande campione svedese, ci aveva visto lungo.
Il palmarès del capitano milanista è impressionante: oltre ad una lunghissima serie di premi e riconoscimenti personali, ci sono: sette scudetti, cinque Supercoppe italiane, una Coppa Italia, cinque Champions League, cinque Supercoppe UEFA, due Coppe Intercontinentali e una coppa del mondo per club.
Manca il mondiale con la nazionale, quel mondiale a cui Maldini è andato vicino, vicinissimo: terzo posto a Italia 90 e secondo a USA 1994. Così come Paolo ha sfiorato, senza conquistarlo, l’europeo, sempre in maglia azzurra: sconfitta in finale ad opera della Francia con golden gol di David Trezeguet, subentrato a un quarto d’ora dal termine dell’incontro dominato dagli azzurri.
Maldini, con la maglia della Nazionale, gioca quattro mondiali con ventitré presenze, secondo in una speciale classifica solo a Lothar Matthaus, che di presenze ne vanta venticinque ma in cinque edizioni disputate. Saluta la maglia azzurra, capitano per otto anni di fila, all’indomani della sfortunata e travagliata trasferta mondiale in Sud Corea, chiusa con l’imbarazzante gestione di gara da parte di un signore ecuadoriano, tale Byron Moreno: intendiamoci, quella nazionale sbagliò tanto, ma l’arbitro ci mise del suo. Comunque Maldini viene accusato e attaccato dalla stampa: il gol sudcoreano è colpa sua. E lui ci rimane male. Tanto male da non rispondere più alle chiamate del Commissario Tecnico dell’epoca, Giovanni Trapattoni.
Dopo aver appeso le scarpette al chiodo, Maldini si allontana dal mondo del pallone. Dice, rispondendo a varie interviste, che vi rientrerà solo a fronte di un progetto serio. Il momento arriva, evidentemente. Il Milan lo chiama, Paolo risponde: diventa direttore tecnico dei rossoneri, sedendo dietro una scrivania. Ma, nell’immaginario comune di tutti i tifosi, Paolo Maldini è l’uomo che, il 31 maggio 2009, girò intorno al campo dell’Artemio Franchi mentre i tifosi viola, in quel momento i tifosi di tutto il mondo, lo applaudivano alzandosi in piedi.
Nato a Milano, giornalista, scrittore, speaker radiofonico ed opinionista televisivo, laureato in Marketing e Comunicazione d’Impresa.