Siamo passati da Obama a Trump e ora a Biden, da Monti al Conte in versione gialloverde, da Letta al Conte in un governo giallorosso, dal Conte bianconero a quello nerazzurro, dal Pirlo maestro del centrocampo all’Andrea allenatore esordiente e già bollato come incapace, abbiamo combattuto pandemie e atteso i vaccini, ma una cosa è rimasta ferma lì, immutabile e immarcescibile: la Juve data per morta prima e la Juve che festeggia dopo, mentre intorno nessuno riesce a fare i complimenti ai bianconeri per il diciottesimo trofeo conquistato in questi oltre 3000 giorni magici per noi e micidiali per loro.

La Supercoppa, sia chiaro, non mi ha mai interessato più di tanto.
L’ho guardata distrattamente da un iPad nel bazar di Istanbul, a casa da solo, in locali con amici: non c’è alcun rito sacrale intorno a un trofeo che peraltro quasi sempre sarebbe spettato a noi di diritto, avendo vinto in campionato e Coppa Italia l’anno precedente.

Questa volta, però, c’era qualcosa di diverso.
Un po’ perché la sfidante si era degnata di vincere – ai rigori, sempre contro di noi – almeno la Coppa, guadagnandosi realmente il diritto a giocarsi il trofeo; molto per altri motivi che riguardano solo noi, perché siamo perfettamente consci di essere in mezzo a un tentativo stimolante ma difficile di aprire un nuovo ciclo senza interrompere quello in essere ormai da una vita. I giocatori, intanto: basti pensare al fatto che solo ieri abbiano giocato quattro ragazzi acquistati quest’anno, tra cui alcuni giovanissimi e uno addirittura per noi sconosciuto, fino a pochi mesi fa. Tre giorni dopo una sconfitta brutta nelle modalità, nell’atteggiamento e nel risultato, con il funerale pronto, le sentenze già pronunciate, le bocciature già decretate, una finale da giocare contro un avversario in grande forma, di fronte al quale però non si è spaventato nessuno. Anzi, a parte il Chiesa un po’ menomato per problemi fisici, tutti hanno contribuito alla vittoria e qualcuno, come Arthur e McKennie, ne è stato addirittura tra i principali artefici. E non importa se una questione di attimi ci costa un rigore, se all’ultimo secondo ci stanno per riprendere con una deviazione sfortunata salvata da super Szczesny. Avevamo più voglia noi e allora, siccome manca un minuto, ce ne andiamo in contropiede perché Cuadrado vuole fare capire al mondo quanto possa incidere la sua assenza, fattore mai considerato nelle nostre prestazioni senza di lui: appena resuscitato, fa 90 minuti splendidi, anzi 95 perché la partita sta finendo ma lui sta ancora volando ed è lucido per dare il pallone all’uomo delle finali, quell’Alvaro Morata che pare non essersene mai andato, baluardo anche lui di questo periodo infinito.

E in una giornata così, nella prima vittoria del nuovo ciclo o nell’ennesima di quello già esistente, come preferite voi, non c’è tempo per ricordare le risatine di troppo di qualche avversario durante o dopo qualche scontro di questi anni, non c’è spazio per il deprimente contesto che conosciamo già, in cui chi dirige lo sport nel servizio pubblico parla di episodi per commentare la vittoria e non trova la forza di fare un commento dove ahinoi non manca mai, quando a vincere è la sua squadra del cuore. Specchio di un Paese con sempre minor rispetto per le istituzioni in ogni campo, e in effetti perché il calcio e l’informazione sportiva dovrebbero essere un’eccezione?

Celebriamo l’ennesimo trofeo del vecchio ciclo, allora, pensando ad Andrea Agnelli, ovviamente, ma anche a Fabio Paratici, Pavel Nedved e compagnia, che dopo più di 3000 giorni così devono pure fare i conti con i commenti sprezzanti e velenosi di chi non ha ancora ben capito che cosa abbia vissuto e stia vivendo. Sarà tutto chiaro quando sarà tutto finito, speriamo il più tardi possibile: non quest’anno, perché un trofeo è in bacheca anche stavolta e un’occasione per festeggiare non manca neanche questa volta.

Festeggiamo soprattutto, però, il primo trofeo del nuovo allenatore. Dimenticato dai suoi ex tifosi, idolatrato da certa stampa impaziente di farlo salire più in alto possibile perché da lì le cadute fanno più male, e infatti dopo settimane di scemenze come “Maestro” e “Pirlolandia”, il funerale era già pronto, e lo sarà nuovamente alle prossime sconfitte.
Amato da tutti noi, che proprio ieri abbiamo capito una cosa: vincere è bello, chiunque ci diriga, alleni e giochi nella nostra squadra.
Ma trionfare con uno di noi, se possibile, è ancora più speciale.