Di Alfredo Pedullà
28 Marzo 2022
L’Inter si è fermata e non ha mezzo alibi. Dal derby che vinceva fino a 20 minuti dalla fine, all’eclissi totale. Si può bucare una partita, ma bisognerebbe evitare di andare in caduta libera. I sette punti nelle ultime sette partite sono una chiave numerica, ma serve altro. Simone Inzaghi ha perso il controllo, anche tattico, della situazione. Certo, è giusto dire che la Champions abbia spremuto un po’, ma non è un discorso che regge per spiegare la caduta libera. E non è corretto tornare indietro nel tempo, alla scorsa estate quando andarono via Lukaku e Hakimi, quando salutò Conte, per collezionare ulteriori alibi. L’Inter era una squadra prolifica, produttiva, resistente in difesa fino a qualche mese fa, significa che l’organico era adeguato. L’emorragia in corso, e che non viene frenata, ha un altro tipo di responsabilità, altrimenti – per coerenza – sarebbe stato corretto dire fin dall’inizio che la squadra non avrebbe retto per una sostanziale differenza di organico (parliamo di qualità) rispetto alla scorsa stagione, la stessa che ha portato alla scudetto. Fino a tre settimane fa, l’Inter era considerata – non soltanto dai quotisti – la principale favorita per lo scudetto. Pur avendo una manciata di punti di vantaggio, e considerando la partita che deve recuperare a Bologna, c’era una differenza sostanziale nel confronto con le altre squadre in lizza. Quindi, bisognerebbe metterci coerenza e non cambiare idea ogni cinque minuti, esercizio patetico.
Simone Inzaghi è un allenatore moderno, ma ha un grande limite. Il 3-5-2 è un credo indissolubile: quando tutto funziona bene, il raccolto è copioso, le sue squadre si esprimono nel migliore dei modi, le occasioni fioccano e i momenti più complicati di una partita vengono superati senza problemi. Quando il motore si inceppa, qualche singolo non rende e la luce si spegne, bisogna avere un piano B che non esiste. L’assenza di Brozovic per due partite ha amplificato problemi che prima venivano mascherati, ma questa è un’aggravante. Le sostituzioni sono sempre in fotocopia, quasi come se non si avvertisse la necessità di provare qualcosa di diverso. Lautaro esce per far posto a Sanchez, un cliché fisso. Dzeko sta in campo fino a quando può e poi magari si va all’avventura con Correa. Per una volta Inzaghi si dovrebbe sforzare e proporre qualcosa di diverso: due punte e un trequartista, Calhanoglu più avanzato e a ridosso degli attaccanti, quel minimo sindacale che ti fa intuire la presenza di un allenatore nei momenti di difficoltà. Poi c’è un altro aspetto, importante: questa Inter è come se avesse le lampadine fulminate senza qualcuno in grado di agire per il pronto intervento, eppure l’emergenza andrebbe affrontata.
La stagione è lunga per tutti, il dispendio per vincere ad Anfield senza riuscire a centrare la qualificazione ai quarti di Champions può essere stato pagato con quel po’ di frustrazione che non consente di avere la serenità e la lucidità necessarie. Ma Inzaghi deve indagare riferendosi al suo passato, quegli strani black-out che da febbraio in poi sono una caratteristica delle squadre che allena. Gli era capitato spesso alla Lazio: ricordate la splendida interpretazione prima del lockdown legato al Covid? Sembrava potesse superare da un momento all’altro la Juve malgrado un organico legittimamente inferiore. Alla ripresa delle ostilità, un flop e un’altra squadra: certo, le motivazioni c’erano – eccome – ma il periodo era più o meno lo stesso. Quindi, certe riflessioni vanno fatte, senza trascurare il minimo dettaglio.
La sosta è arrivata nel momento opportuno: pensare che l’Inter debba mollare la presa adesso sarebbe ancora più delittuoso della crisi in corso. Tra pochi giorni la visita alla Juve: tornerà Brozovic, le scorie mentali verranno messe in un cantuccio, il lavoro di Inzaghi dovrebbe essere profondo pur sapendo che lui – come molti suoi colleghi – dovrà risollevare i suoi azzurri sconvolti dalla delusione playoff (Barella in testa). Poi sarà il momento di pensare al mercato, cosa che l’Inter ha regolarmente fatto negli ultimi mesi, a partire dalla chiusura della sessione di gennaio. Un vice Brozovic, certo, uscendo dall’equivoco Vidal che costa parecchio (ben sette milioni di ingaggio a stagione) senza un rendimento che giustifichi anche solo il 50 per cento di quell’enorme spesa. Era stata una richiesta esagerata di Conte, nel senso che non voleva sentire ragioni diverse rispetto alla necessità di riportarlo in Italia, fin qui è stato un autentico flop. Ma l’Inter ha bisogno di altro, un’alternativa a Barella (la pista Frattesi viene battuta da mesi), un attaccante che consenta a Dzeko (non più un ragazzino) di non spremersi per 50 partite a stagione e la mossa Scamacca sarebbe perfetta, pur in presenza di concorrenza.
La difesa va rinfrescata, Bremer una priorità da centrare, e bisogna capire un’altra cosa: Gosens ora è in condizione di giocare più di uno spezzone, allora è giusto che vada in campo con una certa continuità altrimenti non sarebbe spiegabile il sacrificio economico di prenderlo a gennaio con uno sforzo economico non indifferente. Ecco, ora tocca a Inzaghi e Gosens è uno dei motivi di una rivisitazione di quanto accaduto da febbraio in poi, dati alla mano inequivocabili e che vanno modificati con nuove idee. Per il mercato ci sarà sempre tempo, per la classifica non più. Juve-Inter in arrivo sarà una grande occasione per Allegri, ma anche e soprattutto una specie di ultima chiamata per fare in modo che Inzaghi ritrovi la sua squadra prigioniera dentro un vicolo cieco.
Giornalista e opinionista sportivo, grande esperto di calciomercato in Italia. "È un privilegio quando passione e lavoro coincidono".