Di Alfredo Pedullà
28 Settembre 2021
Si chiama Luciano e ha poca importanza che di cognome faccia Spalletti, almeno per i tifosi del Napoli. Luciano e basta, meglio Lucio che è più confidenziale. Dalle parti del Maschio Angioino gli metterebbero da parte un’ipotetica suite per i prossimi sette mesi. Anche se il suo contratto è lungo, partendo dal presupposto che non bisogna fare troppi voli e limitarci a quanto sta accadendo adesso. Tutto questo perché il signor Lucio, soltanto lui, ha rimesso in circuito i sogni di una città depressa e che non aveva dimenticato l’onta di quell’epilogo contro il Verona, pareggio sanguinoso e qualificazione in Champions andata maledettamente in malora. Roba da archiviare per almeno un paio di mesi qualsiasi necessità di occuparsi delle cose calcistiche.
Napoli era depressa, non poteva immaginare e sopportare un sogno sfumato per un calo di tensione. E stavamo parlando dell’agognato desiderio di tornare nell’Europa che conta, quella della musichetta, dei vecchi sogni accarezzati ai tempi di Maurizio Sarri con una partecipazione che per tre anni consecutivi nessuno aveva messo in discussione. Poi Ancelotti e il testacoda. Quindi Gattuso, che aveva rilevato da Carletto, aveva rimesso a posto un po’ di cocci e poi si era incartato anche lui, a 50 metri dallo striscione, quando tutti pensavano che lo avrebbe superato a mani alzate. Senza consentire alla Juve di rimontare e di vedersi arrivare tra le mani un cadeau di incalcolabile valore.
Un suicidio del Napoli, un testacoda che neanche a farlo apposta. Come se vedessi un cartello di accesso all’autostrada e imboccassi quello opposto, malgrado una scritta di divieto a caratteri cubitali. Insomma, ti sei rovinato con le tue mani e chi ha voglia di parlare di Osimhen o Insigne, di Koulibaly o di Fabian che pennella? A maggior ragione dopo un mercato ponderato, niente spese folle, anzi nessuna spesa vera. Ma con l’obiettivo di mantenere la competitività della rosa, resistendo alle proposte per la cessione di qualche pezzo pregiato. In attesa che arrivasse lui, Lucio, l’uomo giusto e già a suo tempo corteggiato da De Laurentiis. Erano i momenti finali della sua prima esperienza con la Roma, quella volta aveva deciso di andare a San Pietroburgo per un tuffo nello Zenit, annessi e connessi ingaggi milionari.
Ma la seconda chiamata di De La era giusta, dopo due anni sabbatici vissuta con la testa inizialmente piena di pensieri (o di rancori) per quello che riteneva fosse stato un ingiusto esonero da parte di Zhang e Suning. Soltanto per far posto a Conte e alle sue richieste folli, senza un minimo di riconoscenza per quanto aveva costruito e conquistato. Lucio aveva bisogno di resettare, di staccare la spina, di rigenerarsi. E questo Napoli, lo aveva intuito da primi proficui contatti primaverili, sarebbe stato il giusto modo per spalancare la finestra sul mondo che lui ama, dentro le motivazioni migliori e con le tossine (i veleni) alle spalle. Adesso siamo passati dalla teoria alla pratica.
Spalletti ha vissuto gli stessi due anni sabbatici di Allegri ma in modo diverso: ha smaltito la rabbia per l’esonero Inter, ha detto no anche al Milan che lo avrebbe voluto prima di Pioli. Lucio aveva sete di vendetta verso Zhang e soci, proprio per questo motivo aveva deciso di aspettare sulla riva e di rientrare nel giro solo dopo aver incassato l’ultimo bonifico nerazzurro. Ma quando è tornato, ci ha messo la voglia e la dolcezza, la serenità e la competenza. L’esatto contrario di Allegri che quei due anni li ha vissuti peggio e quando ha ripreso in mano la Juve si è sfogato con quasi tutti, addirittura mettendo in discussione chi (Federico Chiesa) per distacco avrebbe dovuto essere tra i pochi insostituibili. Andate in archivio e riprendete le parole di Spalletti fin dal primo giorno di Napoli. Parole dolci per tutti, si sarebbe incatenato se avessero ceduto Koulibaly, ha distribuito ottimismo sul rinnovo (difficile) di Insigne, ha parlato dell’organico a disposizione come se fosse il migliore al mondo. E poi si è fermato, dopo ogni allenamento, per curare personalmente i movimenti di Osimhen, ritenendo l’attaccante il capopopolo di una rivolta che vedremo dove porterà.
Oggi è troppo presto per dirlo, di sicuro il Napoli gioca un calcio divino. E ha inaugurato un nuovo juke-box, a ogni gettone vengono fuori un po’ di gol, ultimamente anche quattro a partita. Al mercato ha chiesto poco, se non la certezza che non sarebbero partiti i gioielli: lo hanno accontentato al 100 per cento. All’ultimo giro di carte gli hanno regalato Anguissa in prestito leggermente oneroso, un armadione dai piedi buoni e dalla personalità spiccata, oltre che dall’indiscutibile continuità: non a caso in Inghilterra avevano speso 30 milioni. Anguissa rischia, un bel rischio a dire il vero, di diventare l’equilibratore perfetto per fare andare al massimo il motore di Lucio. L’altro acquisto, Juan Jesus che conosce bene fin dai tempi della Roma, sarà utile per le rotazioni difensive. In cambio, tra le altre bellissime cose, Spalletti ha restaurato Lobotka che era costato una ventina di milioni ma che era diventato un soprammobile pieno di polvere e con tanta voglia di cambiare aria. Adesso è con Luciano e combatte per lui, tremendamente felice di aver lasciato il tunnel alle spalle.
Non sappiamo dove arriverà il Napoli, nessuno può saperlo. Ma un trionfo c’è già, equivale a una medaglia al petto che ognuno indossa con orgoglio e parliamo del tifoso medio azzurro. C’è una motivazione: Spalletti ha restituito la voglia di appartenenza, ha spazzato via le tenebre, ha rispedito al mittente quelle maledetta partita contro il Verona, come se appartenesse a una dozzina di anni fa. Tutto questo non varrà uno scudetto, ma molto più di una speranza.
Giornalista e opinionista sportivo, grande esperto di calciomercato in Italia. "È un privilegio quando passione e lavoro coincidono".