Di Alfredo Pedullà
15 Novembre 2021
Gli mancava l’ultimo assaggio, quello che ti puoi consentire soltanto se sei arrivato – per meriti – alla corte dello chef più prelibato. Stefano Pioli aveva bisogno di scoprire il gusto forte di una grande squadra che gli desse fiducia in nome della continuità, non della grande squadra che lo chiamasse soltanto per risolvere i problemi e poi pensare a un‘altra soluzione. Il Milan. La sua carriera aveva già avuto molti dipinti a colori, alcuni capolavori come – per esempio – la qualificazione Champions alla guida della Lazio. Lo avevano chiamato a Firenze e aveva fatto bene, a Bologna non lo dimenticheranno facilmente e ricorderanno il suo lavoro molto concreto e senza sconti, in nome di una pulizia tattica assolutamente indiscutibile. Ma, prima di Firenze, ecco la sponda nerazzurra di Milano: è novembre del 2016 quando lo convocano d’urgenza per prendere il posto del fallimentare Frank De Boer. E soprattutto per mettere un freno a quell’emorragia che aveva mandato in frantumi i sogni dell’Inter e di chi ha a cuore quelle sorti.
Ecco, in un momento del genere anche Pioli – figlio di una gavetta completa – pensa che sfruttare quell’occasione fino in fondo sarebbe l’auspicata svolta di un bel tragitto sul punto di diventare straordinario. Invece no, l’Inter ha una dignità ma non riesce a rimettersi in corsa per la zona Champions, perde gli scontri diretti, poi anche cinque partite di fila. Così l’Inter decide di esonerarlo e di convocare Stefano Vecchi come traghettatore di una stagione inutile. Sì, la dignità del lavoro e la colpa soprattutto di De Boer che era stato il primo pilota di quella disgraziata stagione. Ma alla fine Pioli chiude con 39 punti sui 69 che avrebbe potuto conquistare: la dignità del 50 per cento, ma anche il solito rimpianto.
Con una domanda: perché io, Stefano l’ambizioso, non riesco a mettere i piedi in pianta stabile dentro un club che mi affidi le ambizioni fin dal primo giorno, piuttosto che chiamarmi per restaurare e poi mandarmi via per colpe non soltanto mie? L’Inter sarebbe ripartita prima da Spalletti e poi da Conte, ma quel quesito di Pioli non era poi campato per aria e avrebbe avuto presto una risposta molto chiara.
Milano nel destino perché Stefano cancella a Firenze la delusione nerazzurra, fa un lavoro tattico da tenere in grossa considerazione, piange disperato la morte di Davide Astori e poi si prepara a tornare sull’altra sponda dei Navigli, quella rossonera. L’avventura di Marco Giampaolo dura pochi mesi: il Milan lo chiama per una ricostruzione che possa avere tempi non troppo lunghi, il verbo è interessante ma non attecchisce. Le qualità dell’allenatore non possono essere messe in discussione, tuttavia la squadra parla un’altra lingua e il rischio grossissimo è quello di buttare a mare una stagione. Diversamente un club così prestigioso non cancellerebbe un progetto dopo qualche mese appena dal ritiro estivo. Invece, va proprio così: Giampaolo out.
Maldini e Massara cercano seriamente di arrivare a Luciano Spalletti che invece decide di restare a libro paga dell’Inter, quasi come se fosse una ripicca per il recente esonero che aveva portato all’avvento di Antonio Conte. Ecco, quindi, Pioli al capezzale di un Milan malato, con la mentalità sbagliata, lo stesso Milan che tocca il punto più basso non solo della stagione ma di gran parte della storia recente in un pomeriggio di dicembre, all’interno di quel 2019 maledetto. Cinque schiaffi dall’Atalanta, potevano essere anche 8 o 9, una prova di debolezza assoluta non all’altezza di un club così blasonato, quasi un’umiliazione che rischia di diventare indelebile.
Invece, proprio quel pomeriggio nasce il Piolismo e una nuova strategia. Il Milan decide di aprire a Zlatan Ibrahimovic dopo un tira e molla infinito e lo stesso allenatore accoglie il fenomeno in grado di cambiare pelle e mentalità alla squadra. La forza di Pioli, possiamo dirlo dopo due anni di Milan, è stato proprio quella di non chiudere le porte a una rivoluzione che passasse inizialmente attraverso l’acquisizione di un campione scomodo. Nessuno potrebbe permettersi di mettere in discussione Ibra, neanche per sbaglio o per scherzo, ma accettare un campione (per qualcuno un ex) di 38 anni suonati dandogli quasi le chiavi del bolide sembra come minimo un azzardo. Invece, nasce la chimica, l’alchimia, l’allenamento alla vittoria: il primo anno è una specie di backstage, dopo il lockdown il Milan vola e chiude in zona Europa League.
La seconda stagione, quella che Pioli può preparare fin dal primo minuto di ritiro, è un inno alla felicità completamente ritrovata. La squadra recita a memoria, dal mercato arrivano aiuti: Theo Hernandez migliora e Brahim Diaz alla lunga sarà determinante, Kessie gioca il miglior campionato di sempre, Ibra lascia il segno quando c’è e quando si infortuna, una presenza costante. Quel Milan torna in Champions dopo sette anni, soffre fino all’ultima giornata, si impone a Bergamo dopo essere stato a lungo al comando della corsa. Ora possiamo dirlo, nessuno si offenderà: se non avesse superato l’ostacolo Gasperini, probabilmente oggi Pioli non sarebbe più l’allenatore rossonero. Malgrado le parole di circostanza, firmate da Maldini, nella settimana che aveva preceduto la visita all’Atalanta. Quelle parole avevano garantito la conferma a prescindere, in realtà il ribaltone sarebbe scattato al 95 per cento senza la qualificazione Champions. Avrebbe ringraziato Pioli per l’ottimo lavoro, ma difficilmente gli avrebbero perdonato di essere rimasto fuori dalle prime quattro dopo una frequentazione fissa di quella zona per l’intero campionato. Il trionfo di Bergamo ha avuto il potere di cancellare tutto.
Oggi il Piolismo è una legge non scritta che entra nella testa di una squadra e ne cambia i connotati, quindi la mentalità. Il Milan attuale non ha soltanto indiscutibili valori tecnici, irrobustiti da operazioni di mercato spesso competitive e nel rispetto della linea imposta dalla proprietà (largo ai giovani e nessuna chiusura a qualche big ultratrentenne, vedi Giroud). Il Milan attuale è figlio di una maturità-convinzione trasmessa al 100 per cento da chi lo guida e da uno staff competitivo. Un esempio è Tonali: il suo impatto è stato difficile ma nessuno si è permesso di mettere in discussione le qualità e adesso è un titolare quasi fisso. Il Piolismo è entrare nella mente, affinare la mentalità, prenderti l’anima sempre più rossonera e dimostrarlo non a chiacchiere. Fateci caso: il Milan vince le partite sporche e quelle di prepotenza, stradominando e incantando, è la famosa sintesi che milioni e milioni di tifosi avevano invocato. Al punto che il rinnovo dell’allenatore è imminente, strameritato e con una certa profondità (nuova scadenza 2024). Non troveremo il Piolismo sullo Zingarelli o sulla Treccani del calcio, ma ogni giorno a Milanello – da oltre due anni – quello sì: in fondo, è l’unica cosa che conta.
Giornalista e opinionista sportivo, grande esperto di calciomercato in Italia. "È un privilegio quando passione e lavoro coincidono".