Di Mauro Suma
30 Marzo 2020
Ci sono tramonti che non tramontano mai. Il Milan lo sa bene, perché il Milan ha un tatuaggio al centro della propria Storia: dopo Istanbul, c’è sempre Atene. Ricordo perfettamente, nei giorni da incubo post Istanbul, tra un tranquillante e l’altro, quello che mi spiegò Carlo Ancelotti trascinandomi in una pausa degli allenamenti, nella sala video di Milanello: “Guarda”. Carlo clicca un pulsante e partono le immagini del secondo tempo di Milan-Liverpool all’Ataturk di Istanbul. Mentre i Reds stanno attaccando e il pericolo sta iniziando a materializzarsi, Ricardo Kakà è vicino alla fascia del campo, la destra per il Milan, la sinistra per il Liverpool. Guarda cosa? Guarda che il Liverpool attacca e Ricky si sta allacciando le scarpe… Ci sentivamo troppo forti, troppo belli, pensavamo che la partita fosse finita. Non l’aveva fatto apposta Riccardino, la sua superficialità in quell’attimo non era dolosa, non era voluta. Ma c’era, era connaturata nella squadra, nel clima che si respirava in campo. Le persone intelligenti, di sensibilità e di spirito, sanno capire e sanno migliorarsi. Ad Atene, infatti, due anni dopo, Kakà ha stretto i denti. Non stava bene, Ricky. Aveva male al pube. L’ultimo sforzo che poteva fare in quel momento era quella partita e solo quella partita. E se non ci fosse stata la finale di Champions League, si sarebbe fermato già da qualche settimana. Tanto che, subito dopo il trionfo di Atene, il Milan non perse tempo e inviò un report dettagliato alla Federcalcio brasiliana sulla situazione medico-atletica di Kakà, scongiurando la Seleçao di non fargli prendere parte alla coppa America del 2007. Cosa che accadde puntualmente: Ricky non scese in campo. Ad Atene lo aveva fatto e con Mascherano che lo pressava e lo sfiancava, non c’era il tempo di allacciarsi le scarpe. Ricky era sofferente, correva, ci provava e insisteva per la squadra, ma senza incidere, non era lui.
Tanto che Rafa Benitez commise l’errore fatale, ritenendo che ormai Kakà fosse stato limitato definitivamente: al 78° minuto toglie Mascherano, per mettere una punta in più, Peter Crouch. Quattro minuti dopo, esattamente quattro minuti, non uno di più, dopo quella sostituzione, senza l’alito di Mascherano sul collo, Ricky fa la sua prima vera giocata del match ed è l’assist per Inzaghi: 2-0, Milan campione d’Europa per la settima volta, nonostante l’inevitabile tremarella finale per il gol di Kuyt. Le stringhe delle scarpe di Istanbul e i denti stretti di Atene sono i due volti del calcio. Quindi, i due volti del Milan. Che il calcio, dal 1899, ce l’ha nelle vene, nell’anima, nel cuore. Il Milan può distrarsi, può calare, può accumulare ritardi. Ma resta il Milan, una entità riconosciuta dai cieli del gioco, dalle sfere del calcio. Hanno impersonato tutto questo proprio Kakà e Laura Pausini. Hanno cantato insieme l’inno del Milan di recente su Instagram e idealmente li ho rivisti a Monte Carlo. Anzi, ho rivisto solo Laura a Monte Carlo, mentre cantava Incancellabile con Carlo Ancelotti e Adriano Galliani, dopo la Supercoppa Europea vinta nel 2003 contro il Porto di Mourinho. Kakà al pianoforte non c’era, era un ragazzino, era appena arrivato. Laura, l’ultimo flash del periodo pre-Kakà. Poi, pochi giorni dopo ad Ancona, in campionato, sarebbe iniziata l’era del Bambino d’Oro.
Quante volte, nella storia del Milan, Istanbul e Atene si sono date il cambio. E viceversa. Perché, vedete, il Milan non è mai un attestato di partecipazione, una medietas. Il Milan è o alto o basso, o dramma acuto o gloria eterna. La mediocritas per il Milan non è aurea, per il semplice motivo che non esiste nel suo DNA. Nel febbraio 1986 il Milan era in un’aula di tribunale, nel maggio 1989 era campione d’Europa. Nel maggio 1993 Franco Baresi piangeva al centro del campo di gioco dell’Olympiastadion di Monaco di Baviera, dopo la finale persa contro l’Olympique Marsiglia per il gol di Boli, nel maggio 1994 il Milan vinceva la partita del Secolo ad Atene, contro Cruyff e Guardiola, contro Romario e Stoichkov. Nel marzo 2002 il Milan veniva contestato dai suoi tifosi a Bologna che ritirarono gli striscioni dopo il 2-0 dei padroni di casa, poco più di un anno dopo nel maggio 2003 il Milan era campione d’Europa. Lo stesso accadeva nel maggio 2010: contestazione a San Siro dopo il terzo posto in campionato, un anno dopo il Milan di Ibra era campione d’Italia.
C’è, nel petto del Milan, nel suo scrigno più intimo, un sacro fuoco. Che non si spegnerà mai. Che non si è mai spento, nemmeno dopo la notizia del gol subito dal Napoli nel 1982, arrivata a Cesena proprio mentre il Milan stava festeggiando la salvezza dopo la rimonta contro i romagnoli da 0-2 a 3-2. E attenzione, l’attuale settimo posto rossonero, è acqua di rose, è una passeggiata di salute rispetto a quei momenti. E rispetto anche a quegli altri momenti, quelli del 1980, quando qualcuno aveva deciso che il Milan doveva pagare per tutti. È il sacro fuoco che ha alitato quella nebbia mai vista sul campo di Belgrado nel 1988. Un sacro fuoco di giustizia, perché dopo l’aiuto il Milan ha dovuto scontare il suo debito col destino: il gol non concesso a Van Basten a Belgrado, il gol non visto di Rijkaard a Brema, il gol annullato a Gullit a Madrid per un fuorigioco inesistente. Il sacro fuoco brilla, ma senza sconti e senza scorciatoie. Quel sacro fuoco che nei momenti più importanti c’è sempre stato. Arrigo Sacchi ha sempre vissuto come una clamorosa ingiustizia l’idea che quello Scudetto del 1988 lo vincesse il Napoli che era avanti al Milan solo per la classifica avulsa degli 0-2 a tavolino: a favore del Napoli in Pisa-Napoli, a danno del Milan in Milan-Roma. Quattro punti di differenza, colmati dall’impresa del 3-2 del San Paolo del 1° maggio. Storia. La culla del Milan. Negativa o positiva che sia, Istanbul o Atene che sia, sempre storia. Storia allo stato puro, ai primordi, nella sua essenza.
La Storia che, dopo la tragedia del Coronavirus, renderà nuovamente ambita e pesante la maglia del Milan. Ci saranno meno soldi, ci saranno meno follie, bisognerà riannodare i fili della Storia, del prima e del dopo. E chi se non il Milan…
Giornalista e Consultant AC Milan, milanista da trincea più che da salotto, radio e tv nelle corde, derbyderbyderby.it nel cuore. Per ogni articolo preparo e curo anche le virgole, ma per ogni telecronaca porto con me solo le emozioni.