Di Massimo Zampini
Aggiornato: 11 Giugno 2020
Coppa Italia. Si riparte da qui, da una semifinale, con andata già disputata e prime polemiche arbitrali già sollevate, perché se giochi contro la Juve puoi difendere anche con il braccio largo, tanto se verrà colpito e daranno rigore sarai libero di lamentarti e troverai pure una bella schiera di media pronto a darti ragione.
Se mi chiedessero cosa rappresenta per un tifoso come me la Coppa Italia, faticherei a rispondere. Perché come ogni cosa della vita, puoi apprezzarla più o meno, bramarla o esserle totalmente indifferente, a seconda del momento in cui ti capita.
È il mio primo trofeo da tifoso, per esempio: comincio a tifare sul serio dopo i Mondiali del 1982 e nell’anno successivo il calcio mi dà il benvenuto con lo scudetto alla Roma e la Coppa dei Campioni all’Amburgo. Però ecco la Coppa che pare un ripiego, ma è pur sempre un titolo.
Poi arrivano gli anni delle conquiste dell’Europa e del mondo, gli scudetti, i Roma-Lecce, ma quando smette Michel arriva il buio e allora ecco, lì la desidero fortemente. Così, quando devo ripensare al gol per il quale ho esultato di più, credo di non andare molto lontano dal vero nel ricordarmi impazzito di gioia, mentre giravo per casa con la radiolina incollata all’orecchio, quando De Agostini ha segnato un rigore decisivo all’ultimo minuto contro la fortissima Samp di quegli anni. Si va avanti, dunque, e possiamo sfidare il Milan dei supereroi mentre noi siamo una delle Juve meno lussuose che si ricordino, con Galia, De Agostini, Barros, Schillaci, Casiraghi e Zoff in panchina. E Gaetano che non c’è più da inizio stagione. E sfidiamo i rossoneri ben sapendo che Dino ci saluterà a fine anno, anche se non lo meriterebbe. All’andata dominiamo ma finisce 0-0. Il ritorno pare impossibile, ma San Siro è zeppa di juventini, poche settimana prima in campionato li abbiamo battuti 3-0 e allora chissà. Così Marocchi pesca Galia, Baresi alza il braccio come d’abitudine ma non basta, perché il gol è regolare e ora loro devono farne due. Finirà così, invece, vinciamo la Coppa Italia (e poi l’Uefa) e a me pare di aver vinto il trofeo più importante che ci sia.
Poi cambia tutto, perché arrivano Lippi e la triade, torniamo allo scudetto ed eccola, un’altra Coppa Italia in bacheca vinta in finale contro il Parma, ma il sapore è un altro, perché il trofeo è tornato un accessorio rispetto a quello principale, che l’anno successivo diventerà Champions League e quello seguente ci porterà in cima al mondo. Per anni non ci pensiamo più, mandiamo spesso le riserve, rimaniamo a nove coppe per una vita, noi e la Roma. Sliding doors: noi perdiamo una finale con Conte allenatore (e in campo diversi ricambi, e un rigore negato a Marchisio che se fosse capitato all’inverso sarebbe diventato un titolo di qualche libro illustre), i giallorossi perdono il drammatico derby deciso da Lulic e allora arriva Allegri, noi ci disperiamo, gli avversari se la ridono e da lì ci divertiamo solo noi, perché dopo una vita di astinenza ne vinciamo 4 di fila, senza lasciare neanche mezzo scudetto.
Rieccoci, ora, e il rapporto è ancora strano: se esco di certo non mi dispero, ma è il primo trofeo a disposizione dopo mesi che non si gioca. Ed è lì, distante ma vicino, proprio come lo slogan dei ripetuti appelli di questi mesi relativi a questioni ben più importanti.
La finale sarebbe mercoledì, in uno stadio Olimpico deserto: ci saranno solo le autorità e una Coppa da assegnare.
Ma per meritarsi quella sfida bisogna farsi trovare pronti, non sbagliare nulla, non sottovalutare l’avversario, fregarsene delle strane e alienanti condizioni in cui si giocherà. Pensare solo al campo, a essere più bravi degli avversari.
In poche parole, a fare la Juve, anche dopo i tre mesi più assurdi degli ultimi decenni.
Autore di 4 libri, praticamente identici, cambiando solo il titolo e i nomi dei protagonisti: finale sempre uguale. Blogger e opinionista tv. La frase che mi sono sentito dire di più in vita mia? "Ma come fai a essere di Roma e a tifare per la Juve?"