Di Gabriele Borzillo
Aggiornato: 7 Luglio 2021
Adesso, per cortesia, non cominciamo col festival del “io lo avevo detto“. Nessuno lo aveva detto, nessuno lo aveva previsto, tutti (o quasi) eravamo convinti che sì, d’accordo, l’Italia avrebbe potuto e dovuto disputare un buon Europeo, tale da cancellare le ombre dopo una delle pagine più buie e nere del pallone italiota, l’eliminazione inopinata dai mondiali di Russia al termine di un percorso triste e senza lampi. Il Mancio viene scelto proprio per questo, tralasciando i soliti che poco lo sopportano e avrebbero da dire anche se il tecnico jesino dovesse vincere Mondiale, Europeo e Nations League tutti insieme. Comunque Mancini i sassolini, anche qualche sassolone, dalle scarpe se li sta togliendo, dimostrando una volta per tutte di appartenere alla ristretta cerchia dei grandi allenatori, dovesse vincere domenica prossima facciamo pure grandissimi.
Nessuno lo aveva detto, nessuno lo aveva previsto scrivevamo poco sopra. Alzi la mano chi pensava, davvero, di arrivare in finale non tanto per il valore reale di questi effettivi, tanto di cappello a loro che si dannano l’anima sul campo, quanto per la consapevolezza di avere quattro o cinque rappresentative nazionali decisamente più forti e complete della nostra da affrontare. E invece, tu guarda, il calcio a volte, spesso, regala gioie inattese e non pronosticabili.
L’Italia, a questa finale, ci arriva con pieno merito: niente fortuna, buona sorte, stellone, chi più banalità ha da dire ne aggiunga a piacimento. No. l’Italia ci arriva per aver dominato in lungo e in largo il proprio girone, rifilando sonori schiaffoni calcistici a chiunque senza il minimo tentennamento, per aver sofferto terribilmente un ottavo di finale contro l’Austria, data per sconfitta da chiunque a qualunque latitudine e autrice di una gara tutta corsa e sacrificio, rischiando anche in più di una circostanza di ribaltare completamente i pronostici, per aver battuto nettamente, al di là del semplice due a uno finale frutto di un fischio generosissimo del direttore di gara lesto ad assegnare il calcetto di rigore ai nostri avversari, i numeri uno del ranking mondiale, i belgi arrivati a questa manifestazione coi galloni di strafavoriti guadagnati sul campo, mica per grazia ricevuta. E, da ultimo, per essere stati gruppo, insieme di uomini e atleti, nella corrida di ieri sera, soffrendo come probabilmente mai era capitato nel recente passato agli azzurri del Mancio.
La Spagna, possiamo tranquillamente definirla impalpabile fino al fischio iniziale del signor Felix Brych da Monaco di Baviera, arbitraggio tra luci e ombre ma non influente sull’esito finale della sfida, si riscopre improvvisamente maestra del tiki taka di guardiolana memoria. Luis Enrique sceglie di non offrire punti di riferimento ai difensori azzurri e Morata resta in panchina, con l’ingresso in campo di Oyarzabal, ventiquattrenne prodotto della Real Sociedad, tanto intelligente tatticamente quanto disgraziato davanti alla nostra porta, per fortuna aggiungerei: il gol divorato da un metro mancando la deviazione di testa è errore gravissimo, così come il mancato vantaggio delle Furie Rosse a inizio partita porta la sua firma. Poi Dani Olmo, mostruoso, Pedri, imbarazzante (positivamente) la gestione delle fasi importanti dell’incontro da parte di questo diciannovenne destinato a entrare nella élite del calcio mondiale in pochissimo tempo, Koke e Busquets garanzie di esperienza e gran gioco.
Insomma, gli spagnoli fanno girare il pallone ad altissima velocità senza che noi ci si capisca molto: abbiamo corso tanto, loro hanno fatto correre la palla che, al contrario degli uomini, non suda. Noi, però, abbiamo un cuore immenso, enorme, anche nelle difficoltà cerchiamo di stare vicini, stretti, uniti. Abbiamo resistito, senza dimenticare come siamo riusciti a fallire un paio di occasioni per portarci sul due a zero prima di subire il pareggio di Morata con imbarcata generale della difesa azzurra, mal schermata anche dal centrocampo. Abbiamo resistito, durante i supplementari. Abbiamo vinto, con merito, perché i calci di rigore non sono una lotteria ma rappresentano lo stato d’animo dei calciatori in un momento decisivo della gara.
Prima di salutarvi lasciatemi spendere una parola per un grande allenatore e un grande uomo: Luis Enrique. Il vero manifesto di come tutti noi innamorati del calcio vorremmo fosse vissuto questo sport. Complimenti a Lui, alla Sua sportività, al suo modo di giocare a pallone. Un grande avversario che incontreremo molto presto, in Nations League. Sarà sempre un piacere.
Nato a Milano, giornalista, scrittore, speaker radiofonico ed opinionista televisivo, laureato in Marketing e Comunicazione d’Impresa.