Di Gabriele Borzillo
14 Giugno 2020
Visto com’era finita qualche mese fa, nulla di nuovo sotto il sole. O, meglio, sotto la luna di giugno. Ma, a essere onesti, le due semifinali sono andate in maniera diametralmente opposta. Sono state giocate in maniera diametralmente opposta. Si sono dipanate in maniera diametralmente opposta.
Quella tra Juventus e Milan è stata noiosa: no, non noiosa a tratti, proprio noiosa. E poco contano gli oltre otto milioni di telespettatori e il 34 % di share, ci sarebbero stati anche in situazione di normalità. Personalmente la partita, che ho visto per tutti i novanta minuti e pure il recupero, dopo un inizio che lasciava presagire il meglio si è addormentata dal momento in cui Rebic, colto da un raptus improvviso, ha pensato di essere la reincarnazione di Bruce Lee. Minuto diciotto e Daniele Orsato da Schio, forse memore di un cartellino non sfoderato in altra circostanza, mostrava all’attaccante croato il rosso diretto. Che, onestamente, ci stava tutto. Sessanta secondi prima Cristiano Ronaldo sbagliava un rigore in maniera perfino dilettantesca per uno come lui, centrando il palo alla destra di Donnarumma proteso in tuffo: con un pizzico di lucidità in più il portoghese, alzando la testa, si sarebbe accorto del movimento dell’estremo difensore e lo avrebbe facilmente battuto cambiando angolo di tiro. Poco male, col Milan in dieci vedremo perlomeno la forza d’urto bianconera ho pensato. Assente, fino al minuto novanta, fatta eccezione per qualche folata che non ha mai spaventato Donnarumma né i tifosi rossoneri. E il Milan? Il Milan ha giocato come ha potuto, in inferiorità numerica per ottanta minuti, senza tre titolari fondamentali fuori per squalifica, senza una vera punta di riferimento. E ha fatto il suo, perché pretendere di più da una squadra rabberciata e pure menomata dalla follia di Rebic è quantomeno grottesco. Alla stessa stregua dei giudizi finali su Pioli, che sinceramente ha cavato dai suoi tutto quanto era possibile cavare.
Ben altro spessore, altro passo, altra corsa e altra musica Napoli-Inter. I partenopei passano, meritatamente o meno non importa, ciò che conta alla fine è il risultato, delle occasioni buttate alle ortiche se ne ricordano al massimo le ortiche ma alla lunga nemmeno quelle. E pensare che una papera incresciosa di Ospina, il vero deus ex machina della qualificazione azzurra, l’uomo che ha parato l’impossibile dopo lo strafalcione iniziale, aveva aperto un’autostrada per gli uomini di Antonio Conte il quale no, proprio no, non concepisce altro modo di far giocare i suoi che non sia dai tre di base dietro. A lui piace così e non c’è niente da fare, si continua sulla falsariga di un modulo poco produttivo fin dall’inizio del girone di ritorno ma, evidentemente, continua a restare quello che offre al tecnico leccese le migliori garanzie. Comunque, difesa a tre o meno, l’Inter butta via letteralmente la possibilità di uccidere la partita in un paio di circostanze prima di essere punita, sopra uno a zero e in controllo totale della gara, grazie a un contropiede avversario gestito dai nerazzurri in maniera quantomeno imbarazzante. La domanda sembra facile: com’era sistemata la difesa interista? Perché d’accordo Young a fare l’ultimo, è veloce, esperto e sa come posizionarsi. Ma, perdonate, Eriksen che rincorre Insigne è una cosa che non si può vedere né capire. Nemmeno in allenamento. L’Inter, un gol simile, lo prese a Firenze, minuto novantaquattro. Uno a zero, possesso palla, contropiede viola e gol, due punti fondamentali buttati via.
Certo, il problema non è soltanto il modulo. Non si tratta di pura questione numerica: quando da sei metri con porta spalancata riesci a non segnare, minuto ottanta circa, le colpe vere o presunte non stanno in panchina, bensì nei piedi di quelli che corrono sul campo. E se sulla respinta il terzino appena messo in campo riesce nell’impresa, complicata, di sparacchiare il pallone a Mergellina beh, puoi difendere a uno, due, tre, quattro, cinque, quanti ne vuoi, ma l’esito finale non cambia.
Volevamo calcio, a Napoli lo abbiamo visto per una sessantina di minuti. Ora aspettiamo mercoledì: fossi Sarri sarei preoccupato, e non poco, sia dalla fisicità del Napoli, altro passo rispetto al poco offerto dalla Juve, sia da Gattuso, che ha dimostrato per l’ennesima volta di essere un ottimo allenatore, capace di leggere come pochi le partite e studiando pregi e difetti degli avversari, vestendosi con abiti adatti all’occasione senza snaturare troppo le potenzialità dei suoi giocatori. Ci sarà da divertirsi. Ce lo auguriamo.
Nato a Milano, giornalista, scrittore, speaker radiofonico ed opinionista televisivo, laureato in Marketing e Comunicazione d’Impresa.