Di Lapo De Carlo
3 Aprile 2020
Sono tante le occasioni in cui nella mia vita mi sono chiesto come fosse possibile provare un sentimento tanto forte e contrastante, così voluttuoso e sanguigno, tanto forte da trasfigurare le mie emozioni, di cui ero sempre stato convinto di essere padrone, al punto da sorprendermi felicemente folle, scatenato, incapace di trattenere la gioia, così come gli impulsi di rabbia e sconforto.
L’Inter è stata la leva perfetta per innescare alcuni impulsi radicati nelle mie convinzioni, esasperando forse il senso di appartenenza, anche verso alcuni giocatori che traducevano i miei valori. Ecco. Alcuni di loro sono stati e sono ancora l’incarnazione di alcuni principi. Mi sono battuto contro il mondo per giocatori dilaniati dalla ferocia e il cinismo, massacrati proprio perché funzionali solo se parte di un trionfo, inutili se appoggiati senza riguardo in una squadra che non vinceva.
Recoba non è stato il primo, ma quello per me più emblematico, perché il pubblico dell’Inter ha sempre scelto, mirato e centrato i giocatori dal maggior talento indicandone la ragione del paradosso: “fino a quando ci saranno i Recoba non si vincerà mai nulla”.
Che ci si creda o meno è un mantra espresso, per chi c’era, anche verso Zenga, Bergomi e Ferri, fino all’anno dei record con Trapattoni, manifestato con la stessa fermezza verso Zanetti e Cordoba prima di Mancini e Mourinho.
I giocatori più perseguibili, quelli più facili da colpire sono però sempre stati quelli come Recoba.
Corso veniva spesso criticato per la scarsa mobilità, ma io ho vissuto le invettive destinate a Beccalossi, crocifisso per la pigrizia, Scifo per la sua incostanza, Dell’Anno e Fresi per la loro fragilità ma nell’anno in cui erano in rosa i due italiani c’era anche Roberto Carlos, che allo stadio suscitava reazioni dicotomiche, tra chi ne esaltava le percussioni irresistibili sulla fascia e chi lo richiamava dandogli del somaro perché non tornava abbastanza.
Era un giovane fenomeno che veniva dal Sudamerica ma stava dividendo il pubblico e qualcuno in società.
Molti smentiscono, ma ero allo stadio quando una parte di quel pubblico saettava in piedi richiamando con le cattive il brasiliano. Nessuna comprensione, nessuna pietà. Una volta venduto e riconosciuto il valore straordinario del giocatore a Madrid, erano tutti diventati fan del giocatore e nessuno in società ha mai voluto attribuirsi la colpa della cessione.
È accaduto anche con Djorkaeff, nonostante sia finito nell’Olimpo (e nella tessera degli abbonamenti) per quel gol impossibile alla Roma.
In seguito, Pirlo, Seedorf sono diventati i martiri e gli esempi perfetti, utilizzati più per indicare sadicamente l’inadeguatezza societaria che per rimarcare un’ammissione di colpa, compresa la critica giornalistica che andava dietro all’insoddisfazione dei tifosi.
Non si tratta sempre di campioni assoluti ma di talenti da incoraggiare, da nutrire nella loro predisposizione, anche se non possono essere i trascinatori. Mi sono indignato per lo stesso motivo anche nei casi di Coutinho, Alvarez, Kovacic, bollati come inadeguati, lenti, immaturi, leggeri. Molti di loro hanno poi vinto e sono stati protagonisti quando inseriti in un progetto che li valorizzava.
Il “risultatismo” è l’anticristo del gioco, i valori assegnati ai giocatori in base ai titoli vinti sono la resa all’inaridimento della bellezza. La svalutazione di Recoba e di chi ne ricorda solo, irridendolo, l’amore munifico di Moratti, esaltandone disonestamente la sopravvalutazione, è esattamente quel tipo di principio opposto ai valori in cui credo; per questo non si può avere una fede, una passione se non commisurandola ad una convinzione opposta.
Non è difficile riconoscere il talento e applaudirlo in campioni come Messi e Ronaldo, Maradona, Crujff, Ronaldo (il fenomeno), Eusebio, Rumenigge e Platini.
Molti giocatori non hanno trovato il giusto riconoscimento per allenatori che li hanno sacrificati per un modulo, altri per infortuni e altri ancora sono stati svalutati per essere stati parte di una squadra che non vinceva, declassando il loro valore.
Il calcio non è fatto solo di schemi e soldatini, di passaggi banali ma corretti, di corsa e cross.
A Recoba (che ha vinto tanto) e a tutti quelli come lui, io invece dico grazie.
Amo il calcio e l’Inter anche grazie a loro.
Giornalista e direttore Radio Nerazzurra, opinionista a Sport Mediaset e TL, insegno comunicazione in Università e ad aziende. Ho un chihuahua come assistente e impartisco severe lezioni nella nobile arte del tennis ad amici e parenti.