Di Francesca Brienza
12 Agosto 2020
Alla fine è successo davvero: come auspicato da molti, James Pallotta ha ceduto la Roma a Dan Friedkin. Già sottoscritto il preliminare d’acquisto, il closing dell’operazione che porterà “un (altro) americano a Roma” è previsto per il prossimo 17 agosto. Potrebbe dunque apparire legittimo il fermento dei tifosi, che invocano il nuovo patron cullando sogni di rinascita dopo due lustri trascorsi annaspando nell’incertezza. Ma in questi casi è sempre saggio professare un cauto ottimismo, astenendosi da voli pindarici che, i sostenitori della Roma lo sanno bene, possono rivelarsi deleteri. Come per tutte le nuove imprese, infatti, servirà un po’ di tempo prima di poter raccogliere i frutti della nuova proprietà. È vero, c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, ma vista la storia recente, è sconsigliabile farvi troppo affidamento. D’altronde, basta rievocare gli albori della gestione Pallotta: tanti buoni propositi, dichiarazioni ammalianti (eccetto alcune uscite infelici che hanno contribuito a minare il rapporto con la tifoseria, rendendolo burrascoso), ed una serie di operazioni strategiche che, se per un verso hanno sicuramente valorizzato il “brand” Roma, per l’altro non hanno comunque condotto alla conquista di alcun trofeo: l’unica cosa di cui squadra e tifosi avevano davvero bisogno.
L’ultima partita dell’era Pallotta contro il Siviglia, poi, si è rivelata tutto fuorché un piacevole addio. Anzi, forse è più corretto qualificarla per ciò che è stata: una delusione! Apatici e insolenti nel primo tempo, i giallorossi hanno provato a salvare la dignità nella ripresa, senza peraltro riuscirci. Edin Džeko, comprensibilmente stizzito nelle dichiarazioni post partita, è stato l’unico a provarci. Insomma, non un bell’addio per l’ex Presidente, e nemmeno la migliore delle accoglienze da riservare al nuovo proprietario, in una stagione già di per sé complicata, ma che, con un colpo di coda, avrebbe potuto essere edulcorata nel rush finale. Se non fossimo al cospetto di professionisti, saremmo maliziosamente indotti a pensare che, viste le vicende societarie, i giocatori fossero più concentrati sulle imminenti vacanze, magari per schiarirsi un po’ le idee, piuttosto che sulla competizione che si stava disputando. Una cosa è certa: quel che è stato, è stato. Nella prossima stagione ci sarà una nuova Roma.
Da cosa si riparte? Stando alle indiscrezioni sinora trapelate, dallo stesso allenatore. Mister Fonseca, sebbene anch’egli nell’occhio del ciclone, ad oggi sembra estraneo alla rivoluzione che l’innesto di una nuova proprietà inevitabilmente comporta. Benché non sarebbe la prima volta, nella storia del calcio, che il nuovo presidente si presenti con il “suo” allenatore, questa prassi al momento non sembra coinvolgere Friedkin. Ci sono altre questioni, più urgenti, in casa Roma. A cominciare dalla difesa, perché i goal subiti sono stati davvero tanti. Qualche giorno fa, Smalling ha salutato i compagni di squadra per far ritorno al Manchester United, ma la Roma confida di riportarlo a Trigoria entro settembre. L’alternativa risponde al nome di Vertonghen, svincolato dal Tottenham e con un ingaggio abbordabile per le tasche societarie. Un altro ruolo scoperto è quello del terzino destro, dato che Bruno Peres non hai mai convinto fino in fondo. Sulla graticola, e in odor di cessione, c’è anche Pau Lopez, il portiere più pagato della storia giallorossa, che era piaciuto al suo debutto, soprattutto per la capacità di giocare con i piedi, ma il cui rendimento è andato scemando nel corso della stagione. Si ripartirà da una colonna portante, tra le poche rimaste: il bomber Edin Džeko. Senza di lui, probabilmente, la Roma non avrebbe neppure agganciato il treno per l’Europa League.
Mai come quest’anno, infine, si è avvertita l’assenza delle bandiere, degli uomini simbolo, dei trascinatori. In mancanza di Totti, De Rossi, e persino Florenzi, ci ha provato Lorenzo Pellegrini a tenere acceso l’ardore romanista, ma è di fatto ancora troppo acerbo caratterialmente per assumersi responsabilità da leader. Edin, dal canto suo, ha fatto quel che è chiamato a fare: i goal. Tanti. Si è caricato la Roma sulle spalle e, pur non essendone un figlio legittimo, l’ha condotta alla salvezza, diventando uno dei bomber più prolifici della storia giallorossa. E badate bene che sarà sempre più difficile, in un calcio fatto di continui trasferimenti, annoverare in squadra calciatori nati all’ombra del Cupolone e forgiati nelle giovanili giallorosse, capaci di trasmettere alle nuove reclute un viscerale amore per quei colori. Eppure, nella Roma che verrà, c’è tanto da ricostruire: la squadra, certo, ma anche un sentimento identitario, ormai merce rara. Insomma, è palpabile l’esigenza di poter tornare a contare su uomini che desiderino follemente indossare quella maglia, che fremano al sol pensiero. Così come servirà un presidente che riprenda a passeggiare lungo i corridoi di Trigoria come fosse quella la sua prima casa. Per info, studiare Dino Viola e Franco Sensi.
Conduttrice, giornalista televisiva e viaggiatrice. Di dichiarata fede romanista, da anni prendo parte a molti salotti televisivi che parlano di calcio per far valere anche le opinioni di chi é donna in un mondo apparentemente accessibile solo agli uomini. Vado dove mi porta il calcio e non solo.