Di Redazione Gianluca Di Marzio
28 Novembre 2020
“Dieu est mort” e con lui anche un pezzo di ognuno di noi, che dietro a un pallone rincorriamo sogni a volte irrealizzabili ma forse proprio per questo così assolutamente necessari, così meravigliosamente puri. Pomeriggio di novembre, il 25 novembre, una data che non sarà mai più la stessa: una Waterloo per generazioni di sognatori calcistici. “Murió Diego Armando Maradona”, scrive il Clarin quando in Italia sono circa le 17. La notizia è di quelle che gela il sangue nelle vene, troppo autorevole la fonte per non crederci, ma allo stesso tempo troppo dolorosa per non provare a “dribblarla”, esattamente come avrebbe fatto lui. Con quel sinistro magico dal sapore di illusione capace di incantare e regalare sorrisi di stupore misti a meraviglia. E invece no, che rabbia. L’ultima magia a Diego non è riuscita. Maradona è morto, ad appena 60 anni e lo ha fatto nella sua casa di Tigre, periferia a nord dell’area metropolitana di Buenos Aires, dove stava trascorrendo la convalescenza in seguito all’intervento per rimuovere un coagulo di sangue al cervello al quale si era sottoposto a inizio novembre.
“Edema polmonare e crisi cardiaca”, le cause della morte accertate dall’autopsia eseguita sul corpo del Pibe de Oro nell’Ospedale di San Fernando, provincia di quella Buenos Aires che non riesce a smettere di piangere. Dolore trasversale che non conosce bandiere e confini e dal cuore dell’Argentina arriva fino a quella Napoli dove la storia personale di Diego è riuscita a intrecciarsi con il tessuto sociale di una città che grazie a quel genio con la 10 sulle spalle ha ottenuto la sua rivincita, non solo calcistica. Stadio San Paolo, quello che ora tutta Napoli vuole intitolare a lui, come epicentro di una storia che leggenda lo era già da tempo. Quella di Diego, la 10 azzurra, la lotta (anche di potere) alle grandi del calcio italiano e tra le altre cose due scudetti (86-87 e 89-90) che riportano Napoli al centro dell’universo calcistico. Maradona non è stato un santo ma nemmeno un diavolo, è stato semplicemente il più grande di tutti in campo. Un eroe popolare che regalava sogni. Straordinario con gli scarpini ai piedi, fragile fuori dal rettangolo di gioco ma capace di farsi amare da tutti. Napoli non dimentica e da quel maledetto lancio di agenzia che ha confermato la notizia della sua morte vive come sospesa, in un silenzio surreale. Tra lacrime, dolore e commozione. Niente sarà più lo stesso.
Una storia, quella di Maradona, che si intreccia con quella della famiglia Di Marzio. Gianni (papà di Gianluca), all’epoca appena nominato allenatore del Napoli, resta incantato dalle qualità di quel ragazzino che era andato a visionare di persona in Argentina. Era il 1978. “Di Marzio torna dall’Argentina con un ‘fenomeno’ nella valigia”, titola un giornale dell’epoca. L’opzione a favore del Napoli però non si concretizza, ma l’azzurro è nel destino di Diego e Maradona a Napoli ci arriva seppur sei anni dopo. E riscrive per sempre la storia del calcio italiano oltre a quella di una città che lo idolatra come mai successo prima. Errori inclusi, perché a Diego tutto è permesso. “Non credo che a sessant’anni sia già tempo di bilanci, ma non rinnego nulla di quel che è stato e di quel che ho fatto. Non ho rimpianti. Non voglio averne. Certo, so di non aver fatto sempre cose giuste, ma se ho fatto del male, l’ho già detto, l’ho fatto solo a me stesso, non agli altri. Però da una quindicina di anni ho imparato a volermi più bene e ora sono felice”, scriveva Maradona lo scorso 30 ottobre, giorno del suo 60° compleanno, in una lettera pubblicata dal Corriere dello Sport.
Quella felicità che Diego è riuscito a regalare a una nazione intera, l’Argentina, grazie a un successo Mondiale, Messico ’86, nel quale è semplicemente andato oltre tutto e tutti, diventando eterno. Il “gol del siglo” (una prodezza realizzata dopo una cavalcata da centrocampo fatta di 12 tocchi e 44 passi) contro l’Inghilterra arrivato pochi minuti dopo quella che è passata alla storia come – per definizione dello stesso Diego – la “mano de Dios”, l’ingannevole tocco di mano che per il popolo argentino assunse il sapore storico di rivincita dopo il conflitto tra i due stati per le Isole Falkland. Davanti quella porta dello Stadio Atzeca di Città del Messico, dove il 22 giugno 1986 si giocò quel quarto di finale tra Argentina e Inghilterra (2-1), ora c’è una corona di fiori e una sua gigantografia. “Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male”, disse un giorno Maradona. Decisamente no, Diego. Tra terra e da ora anche in cielo, ma eternamente nel cuore di tutti.
Dal 2011 ne abbiamo fatta di strada, sempre con voi al fianco. Ci piacciono le notizie, il mercato, il calcio. Sì, ma soprattutto le storie, le emozioni, il bello che questo mondo può regalare. E amiamo raccontarvelo.