Di Alfredo Pedullà
9 Febbraio 2021
Goran Pandev compirà 38 anni il prossimo 27 luglio. Detta così, nuda e cruda e senza troppi giri di parole, sembra quasi un congedo: facciamo gli ultimi mesi di campionato, gli permettiamo di arrivare a 100 gol in Serie A (gliene mancano tre) e poi lo salutiamo con una bella festa che sintetizzi la sua straordinaria carriera. Invece no, non è così: dopo la doppietta al Napoli, ennesima conferma che quando c’è bisogno lui si fa trovare non pronto ma prontissimo, Ballardini è stato talmente chiaro che non ci sarebbe bisogno di aggiungere mezza virgola. Così il tecnico: “Se prima dicevo che in caso di ritiro lo avrei denunciato, adesso posso aggiungere che se Goran non dovesse cambiare idea lo menerei…”. E giù una risata, anche se – stringi stringi – Ballardini mica stava scherzando. Anzi, parlava sul serio. E c’è almeno una spiegazione.
Goran Pandev è una specie di succursale di Zlatan Ibrahimovic, passateci il termine e vi spieghiamo perché. Il classico esempio di professionalità, di perseveranza, di continuità, di precisione al millimetro in qualsiasi tipo di comportamento. Questo è il DNA che lo accomuna a Ibra, con la differenza che Zlatan le vuole giocare tutte, anche quelle tra scapoli e ammogliati, mentre Goran si accontenta di un utilizzo anche centellinato. Eppure ci sarebbero quasi due anni di differenza tra i due, a favore di Pandev, ma si tratta anche di un modo di restare nel gruppo in punta di piedi, senza avere pretese. E sapendo che il Genoa è ormai casa sua da sempre, mentre Ibrahimovic è tornato al Milan dopo un girovagare che lo ha portato anche a Los Angeles, quell’etichetta di giramondo o quasi che il macedone non ha voluto avere pur essendoci stata la possibilità.
Pandev è la chioccia di Scamacca, il partner giusto di Destro, l’uomo che può fare il titolare ma anche il terzo o il quarto cambio con lo stesso risultato. La sfida con il Napoli è stata la cartina di tornasole: in campo dal primo minuto per il forfait di Shomurodov, non vedeva l’ora di dimostrare che avrebbe timbrato il cartellino con soddisfazioni enormi. Quando c’è lui, basta verticalizzare come ha fatto Badelj in occasione del primo gol e in occasione di uno strafalcione firmato Maksimovic: Goran sapeva già dove sarebbe andato il pallone, lo ha inseguito – dritto per dritto – e si è fatto trovare pronto a pochi passi da Ospina. Il raddoppio lo ha visto sempre nella solitudine davanti al portiere del Napoli ma dopo i suoi classici fantastici movimenti, un’azione che parte, un velo, uno scatto o un inserimento. A 38 anni fa esattamente le cose di dieci anni fa, magari in quello stesso stadio che lo vide indossare la maglia del Napoli e il suo rivale era Mattia Perin, il compagno di ora: doppietta anche allora perché lui non fa sconti. In una grande squadra ci possono essere i giovani e i meno giovani, gli esperti e i rampanti ma se mancasse il condimento di Goran il piatto sarebbe insipido.
La storia calcistica di Pandev è una sentenza. È in Italia ormai da circa vent’anni: era un bimbo di 18 anni quando, nell’estate del 2001, l’Inter lo portò in Italia invitandolo a salutare la Macedonia: poco più di 200 mila euro versati al Belasica, la squadra della sua città, e il suo mondo cambiò in modo travolgente. Il settore giovanile nerazzurro, un Viareggio vinto, il prestito all’Ancona, quindi la svolta Lazio, il gusto pieno delle comproprietà (da tempo abolite) per un’operazione conveniente a tutti visto che portò Stankovic in nerazzurro. Era il 2004, cinque anni di Lazio, le liti con Lotito che avrebbero fatto il giro del web, Ballardini impossibilitato a utilizzarlo. E poi, la magia del 2010, ovvero l’anno del ritorno all’Inter, la magia perché è la stessa stagione del Triplete con Mourinho in panchina e quella formula incedibile che portarono tutti a sacrificarsi in nome dell’allenatore.
Sacrificarsi tatticamente, Eto’o e Pandev che facevano anche i terzini e non soltanto gli attaccanti. L’Inter fu una storia da tramandare perché Pandev, dopo il Triplete, restò anche con Benitez: in casa del Bayern segnò un gol decisivo in Champions, quello che poi ha definito il più importante della sua carriera. Ci sono tracce di Pandev sempre e ovunque, quando decise di fare tre anni a Napoli oppure quando preparò la valigia e andò al Galatasaray perché la Turchia è sempre un’esperienza che vale la pena di vivere. Sapendo che la Serie A prima o poi lo avrebbe richiamato, come accadde nell’inverno 2015 quando il Genoa lo prenotò per l’estate successiva, non immaginando che saremmo arrivati al sesto anno di Goran in rossoblù. E chi ha voglia di smettere?
Forse lui che aveva dichiarato, già lo scorso gennaio, la volontà di staccare la spina la scorsa estate. Poi il Covid, un periodo difficile per tutti, la retromarcia e il rinvio rispetto a una decisione presa.
Adesso sta ripetendo la stessa cosa: dopo gli Europei, tanti saluti e stop all’attività agonistica. Per tornare in Macedonia, per fare il dirigente del Genoa, questo ancora non lo sappiamo. Ma ci sarà sempre anche una pura scelta scaramantica: più si avvicina la data dell’addio al calcio, più i tempi si allungano. Se si diverte, come si sta divertendo, non si capisce per quale motivo dovrebbe smettere.
Quando fa il titolare, spende tutto per un’ora e poi esce senza broncio. Quando entra dalla panchina, si sbatte come se fosse un titolare e non ci sono problemi. Saranno 38 a luglio, certo, ma di “nonno” Pandev il Genoa ha ancora bisogno. Part-time oppure a tempo pieno, non è questo il punto. Il punto è che quando sei un riferimento per i ragazzini, un professionista esemplare, basta semplicemente uno sguardo dentro lo spogliatoio per rendere più dolci i pomeriggi del Genoa. Ovviamente con Ballardini in panchina.
Giornalista e opinionista sportivo, grande esperto di calciomercato in Italia. "È un privilegio quando passione e lavoro coincidono".